Il papa
di Padre Serafino M. Lanzetta, – Anno XVI. 2-2021 – sez. Theologica – p. 165-200.
Come scriveva H. U. von Balthasar «la Chiesa non solo ha l’obbligo di essere missionaria, ma la missione è la sua essenza propria». E perché ci fosse sempre questa tensione missionaria ad andare verso tutte le genti, a battezzarle e a farne discepoli di Cristo (cf Mt 28,19-20), il Signore donò alla sua Chiesa un centro e un fondamento propulsore, il papa. Pietro è la “roccia” su cui viene edificata la Chiesa (cf Mt 16,18), «principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e comunione» e dell’unità e indivisibilità dell’episcopato. La Chiesa è prima edificata sul fondamento di Pietro e degli Apostoli uniti con lui e poi è mandata a tutte le genti, come il Figlio è mandato dal Padre (cf Gv 20,21). L’istituzione gerarchica precede la missione e la fonda così nella sua identità universale. Da un chiaro concetto di ciò che è il papa in relazione alla Chiesa ne deriva anche un concetto distinto di ciò che è la missione della Chiesa, senza che le due dimensioni si mescolino e si dissolvano insieme. Bisogna partire dall’essere per capire cos’è l’operato.
1. INTRODUZIONE
«La Chiesa non solo ha l’obbligo di essere missionaria, ma la missione è la sua essenza propria»1, scriveva H. U. von Balthasar, commentando il breve trattato di H. de Lubac, La fondazione teologica della missione (1946). La Chiesa è cattolica, al dire del gesuita francese, riconoscendosi universale de jure desidera anche esserlo de facto. Perché ci fosse sempre questa tensione missionaria ad andare verso tutte le genti, a battezzarle e a farne discepoli di Cristo (cf Mt 28,19-20), il Signore donò alla sua Chiesa un centro e un fondamento propulsore, il papa. Pietro è la “roccia” su cui viene edificata la Chiesa (cf Mt 16,18), «principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e comunione»2 e dell’unità e indivisibilità dell’episcopato3. La Chiesa è prima edificata sul fondamento di Pietro e degli Apostoli uniti con lui e poi è mandata a tutte le genti, come il Figlio è mandato dal Padre (cf Gv 20,21). L’istituzione gerarchica precede la missione e la fonda così nella sua identità universale. Da un chiaro concetto di ciò che è il papa in relazione alla Chiesa ne deriva anche un concetto distinto di ciò che è la missione della Chiesa, senza che le due dimensioni si mescolino e si dissolvano insieme. Bisogna partire dall’essere per capire cos’è l’operato.
Il tema della missione della Chiesa ha conosciuto un’enfasi notevole durante il pontificato di papa Francesco, non senza provocare al contempo dubbi e incertezze circa la possibilità stessa che la Chiesa voglia essere ancora missionaria così come si è sempre ritenuto. La missione che Francesco vuole riassegnare alla Chiesa prova a riconfigurare il ruolo del papato nella Chiesa e della Chiesa stessa, vista essenzialmente come popolo in movimento. Una parola chiave è “conversione pastorale”, declinata poi secondo varie esigenze dottrinali. Ciò che prenderemo in esame è l’intreccio di tale conversione con il ruolo del papato in una cornice eminentemente ecclesiologica. Sembra che mentre si staglia sulla scena mondiale la figura di papa Francesco, si obnubili il ruolo del papa e l’istituzione divina del papato. Si nota una frattura tra persona e ministero.
Gli anni del pontificato di papa Francesco portano a una configurazione nuova dell’antica Chiesa Cattolica? Questo si chiedeva nel 2018 Andrea Riccardi, attento e devoto osservatore del pontificato bergogliano, definendo Francesco «il primo “papa globale”»4. Un papa cioè che non vuole una Chiesa arroccata in modo centralista sui principi e pur sempre minoritaria rispetto all’intera società, ma che sceglie di andare verso le periferie del mondo e di divenire popolo, soprattutto grazie a una forte presenza mass-mediatica5. Più di recente, però, anche senza far riferimento al pontificato di Francesco, lo stesso Riccardi scrive che la “Chiesa brucia”: un’immagine significativa presa dal recente incendio della cattedrale di Notre-Dame di Parigi per esprimere in modo materialmente brusco ma veritiero una crisi del Cristianesimo dalle proporzioni inedite, un lento ma costante declino dei suoi indici di vitalità6.
Se Atene piange, Sparta non ride. Se la Chiesa brucia, il papato certo non festeggia. Queste due realtà vanno insieme al punto che non si dà l’una senza l’altra. Sembra che la medesima svolta “dal centro alle periferie”, si sia realizzata anche nella stessa dottrina del papato, con un notevole accento posto sulla collegialità e sinodalità della Chiesa, senza però rinunciare ad interventi non dottrinali ma disciplinari e pastorali che manifestano comunque il forte arroccamento dell’autorità pontificia. Francesco ha preso una sorta di distanza rispetto alla Chiesa, allo scopo di decentrare la sua autorità, invocando in Evangelii gaudium, documento programmatico del suo pontificato, una «conversione del papato» che sia applicazione di una più vasta «conversione pastorale»7 delle strutture centrali della Chiesa. Conversione corrisponde a “uscita” o a “missionarietà”. Partendo dalla richiesta di Giovanni Paolo II di trovare una «forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova»8, Francesco chiede di realizzare questo auspicio soprattutto esplicitando uno statuto delle Conferenze episcopali quali soggetti di attribuzione concreta e con qualche autentica autorità dottrinale9.
A livello teologico la proposta di un papato più pastorale e sacramentale e meno imperniato sulla potestà di giurisdizione e di magistero era già venuta con un testo di Severino Dianich10. Comprendere però fino a che punto si possa convertire il proprium del munus petrinum che è pascere cioè governare la Chiesa e confermare i fratelli nella fede in un ruolo più pastorale e meno dottrinario non è facile. Si approda a una “pastoralità della dottrina”, come spiega Richard R. Gaillardetz11 citando Christopher Theobald12, in cui i contenuti dottrinari e dogmatici della fede sono subordinati al kerigma. Si potrebbe scadere così in una sorta di opportunismo pastorale, adattando i contenuti della fede in ragione del kerigma, quando lo stesso non è subordinato alla precedenza della fede quale suo annuncio chiaro e integrale. La «gerarchia nelle verità della dottrina cattolica»13, invocata da Unitatis redintegratio, favorirebbe «una pastorale in chiave missionaria non più ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere»14. Si tratterà perciò di interpretare le dottrine e di presentarle secondo l’interpretazione più convincente, senza obliare il ruolo della misericordia15. Se non c’è la verità ci sarà solo la sua interpretazione.
In realtà, è proprio questo sforzo di far precedere la pastorale alla dottrina, ovvero l’agire all’essere, la missione al mistero-Chiesa, non sempre chiaro e dai contorni non ben delineati, che provoca un’incertezza maggiore e uno stallo missionario. La missione diventa introspezione perché priva del suo essere. Si finisce col condannare il fare discepoli (matheteúsate, imperativo di Gesù in Mt 28,19, ed essenza della missione), perché il kerigma non sarà più annuncio della salvezza in Cristo per mezzo della Chiesa, ma una via per risultare più presentabili al mondo. Nell’assenza di una linea di demarcazione tra ciò che è il papato e ciò che è la Chiesa, è facile che le due dimensioni si sovrappongano e si dissolvano l’una nell’altra.
Sembra che il rischio più grande che corra il papato al tempo di papa Francesco sia proprio quello di una sovrapposizione della persona del papa alla Chiesa intera, un personalismo ecclesiologico16, seppur con intenzioni di umiltà e di povertà che miravano a ridimensionare la figura del papa per far emergere meglio la missione della Chiesa. Di più, dal nome stesso che Francesco sceglie – un nome che è tutto un programma – emerge una diatriba tra ciò che è carismatico e che perciò non appartiene al papa e ciò che invece è il proprio del papa e non appartiene all’ispirazione dello Spirito Santo e ai fedeli. In Francesco si realizza un conflitto fondamentale tra istituzione e carisma. Il carisma, l’“aspetto francescano” del suo pontificato, emerge e si impone sul suo ministero petrino; la missione carismatica di san Francesco, il suo amore per la povertà, in qualche modo sostituiscono nel papa il munus di colui che non predilige alcun carisma in particolare, ma tutti li discerne e li istituisce rimanendone al di sopra e assicurando alla Chiesa che non le manchi mai la retta fede e la giusta direzione da seguire. Se l’ispirazione sostituisce il munus, più che provocare una conversione pastorale del papato si ha una svolta di linguaggio del magistero, espressione della svolta più pastorale del papato; s’intraprende così il sentiero di una spontaneità loquace, in cui emerge molto di più Simone che Pietro. E proprio perché comunicazione spontanea e soggettiva, essa necessita un supporto esterno, molto spesso trovato nei mezzi della comunicazione.
A complicare la faccenda, rendendo la situazione ecclesiale ancora più confusa, ha contribuito non poco la vicenda delle dimissioni di papa Benedetto XVI, dando adito a sospetti circa la loro validità, quando non a vere e proprie teorie complottiste. La formula della rinuncia, scritta in un latino pedante, conterrebbe de facto la non rinuncia di Benedetto per rimanere sentinella vigile, seppur appartata, e comunque il vero papa, in un momento di decadenza della Chiesa a causa del suo successore. Tale tesi si avvale del fatto della marcata discontinuità tra Benedetto XVI e Francesco. Ma se Francesco avesse insegnato la fede con chiarezza e senza ambiguità, l’idea di una non validità delle dimissioni di papa Ratzinger non sarebbe forse neppure affiorata. In cosa però Benedetto XVI manifesterebbe di essere il vero papa, dal momento che la sua decisione è stata di rimanere in disparte e di non intervenire in momenti decisivi per la vita della Chiesa, come nell’impasse causato da Amoris lætitia e il suo silenzio sui dubia dei quattro Cardinali? Benedetto avrebbe conservato solo un munus spirituale mentre quello di governo sarebbe passato al suo successore. Non solo si sdoppia così il munus petrinum che è indivisibile, ma allo stesso tempo si fa poggiare l’idea teologica di un “vero papa” su un pontificato spirituale, non visibile, contraria quindi al dogma della visibilità della Chiesa e del ministero del successore di san Pietro.