Chi sono io per parlare?
di Padre Serafino Lanzetta – Anno XV. 1-2020 – sez. Commentaria – p. 167-174
La situazione presente della Chiesa è davvero raccapricciante. Una lotta intestina ingaggiata tra verità e potere la logora. Verità significa fede da accogliere e da custodire così come ricevuta da Cristo attraverso gli apostoli; potere invece è l’uso della propria autorità per cambiare a tutti i costi la fede e adattarla al sentire della cultura dominante. Sembra che un riverbero di questa lotta si manifesti sul piano morale nell’antagonismo tra castità e impurità, tra la conservazione del Matrimonio e del Sacerdozio per ciò che sono e l’imporsi del libertinismo e del desiderio di scegliere ciò che invece è più comodo e più facile, giustificato con parvenze di dottrina.
Siamo di fronte a un processo di auto-secolarizzazione innestatosi da diversi anni a questa parte, ma che ora accelera sempre più. Sono gli stessi membri della Chiesa, le autorità più alte, che contribuiscono al dissolvimento dell’identità cattolica per un fine che si dice “pastorale”. Ciò che dovrebbe corrispondere a riportare a Cristo quei milioni di fedeli che si sono allontanati dalla Chiesa e dalla pratica dei Sacramenti è invece l’esigenza di dare un volto nuovo alla Chiesa, di liberarla da se stessa, dal suo passato e così renderla più fluida nel suo messaggio, capace di adattarsi a tutte le circostanze.
Siamo in preda a una nuova forma di Nominalismo. Le parole sono usate per dire un’altra cosa rispetto al loro significato originario e autentico. Ciò per il fatto che esse non corrisponderebbero alla realtà e non esprimerebbero la verità di ciò di cui si sta parlando, ma sarebbero meri segni convenzionali per trovare un accordo sociale. In quest’ottica le parole e il pensiero sono un’illusione, ciò che conta è l’esperienza. Allorquando le parole, il pensiero, si confanno all’esperienza, cioè sono esperibili, allora manifestano la verità. Siccome però l’esperienza è soggettiva e cambia repentinamente, le parole seguono la medesima sorte. Con le parole ovviamente i concetti che tentano di esprimere1.
Ieri si diceva qualcosa che oggi non è più comprensibile e adattabile allo spirito del tempo. Una delle parole più nominaliste è proprio “pastorale”. Un tempo la si intendeva come “pasto”, “pascolo” che il pastore provvede al suo gregge. Il cibo dato in pascolo era il Logos, la Verità. Poi è divenuta “scienza pastorale”, con il compito di fungere da elemento dirimente circa la bontà o meno della proposizione di una determinata dottrina o della sua retta formulazione (si principia dalla prassi a cui deve aderire la verità, ma si rischia di trasformare la verità stessa in prassi). Ultimamente si è arrivati a concepirla come vero e proprio programma d’azione inteso come «conversione pastorale» di tutta la Chiesa, che abbia come obiettivo anche una «conversione del Papato» e delle strutture centrali della Chiesa, soprattutto l’organigramma della Curia Romana2. Conversione pastorale prevede poi una «conversione ecologica»3.
Perciò cos’è ormai “pastorale”? Al Vaticano II si volle evitare le definizioni e ora siamo piombati in una sorta di fai-da-te teologico.
Per rendersi conto che navighiamo in acque nominaliste, si può far riferimento anche al recente caso del libro scritto a quattro mani da colui che fu papa Benedetto XVI e dal card. Sarah. All’entourage vaticano, soprattutto al gruppo d’assalto giornalistico che funge ormai da baluardo teologico di Santa Marta, ciò che ha dato fastidio non è stato il libro in difesa del Sacerdozio e del celibato scritto da due eminenti persone, ma il fatto che vi erano due autori e che così, palesemente, il Papa che fu sarebbe risultato in contrasto con quello che è. Questo non avrebbe giovato all’immagine che si dava di una Chiesa divisa tra due papi. Il problema era appunto quello dell’immagine di un papato indebolito e non piuttosto il fatto che il libro difendesse e riproponesse in modo autorevole la realtà del celibato. Si è sorvolato sul vero motivo del contendere che è il celibato, ma non senza una precisa ragione. Siccome siamo immersi in un nuovo Nominalismo, ognuno è autorizzato a dire ciò che pensa del celibato (che ormai non corrisponde più alla verità di se stesso, ma è un flatus vocis per dire già il suo superamento e la possibilità di renderlo opzionale); nessuno però è autorizzato a offuscare l’immagine mediatica (esperibile) che si deve offrire al mondo.
L’esperienza, che nell’Empirismo nominalista funge da prova di verità dei concetti, sembra ora detenuta ed esercitata dall’arena mediatica. Nella lotta nominalista non è importante ciò che si dice ma come lo si dice. Così le parole diventano veicolo del potere; di un potere il più appetibile, quello ecclesiastico, perché giustificato con l’autorità che in ultima analisi viene da Dio. Il potere è giustificato con Dio: ecco perché è quello più agognato che trova molti amici esterni pronti ad appoggiarlo.
Davanti a un così palese declino della fede e in un processo ormai inarrestabile di auto-secolarizzazione, sono solo pochi quelli che parlano e che difendono la fede. Perché? Prima di cercare di individuare le cause di questo strano silenzio da parte dei pastori della Chiesa è opportuno però precisare cosa si può o si dovrebbe intendere per “parlare”. È quanto mai opportuno dirlo data la cornice nominalista che inquadra questo problema. Nell’era dei social e del villaggio globale, pretendere che un prelato parli e difenda la fede potrebbe essere inteso anzitutto – o forse esclusivamente – come intervento su qualche sito o mediante un twitt. Mentre è opportuno e vantaggioso l’uso dei media e dei social in una presa di posizione a favore della verità della fede, dato il tempo reale in cui il fatto è conoscibile da molti e in tutto il mondo, il “parlare” però implica molto di più. Esso significa proclamare la verità del Vangelo e difenderla dagli attacchi dei negatori. L’elemento apologetico è necessario. Una fede non difesa dall’errore e dall’eresia strisciante diventa facilmente altro da sé, una nuova religione.
Se siamo arrivati alla confusione odierna che non spaventa più nessuno è anche perché abbiamo messo da parte l’aspetto apologetico dell’annuncio. Questo annuncio o predicazione del Messaggio divino – che si serve dei mass-media ma che non diventa mera comunicazione – è efficace se al “predicare dai tetti” come dice il Vangelo corrisponde anche l’esempio di una vita santa. Aspetto noetico e dinamico della fede e della Rivelazione vanno sempre insieme4. Così predicazione e santità di vita si intersecano e dall’una si può riconoscere l’altra. Parlare dunque è dire la verità e viverla, metterla in atto. Quando qualcosa ferisce una di queste due dimensioni, quella conoscitiva e quella volitiva ed esistenziale, o solo vi si frappone, allora non si ha più la forza di parlare o se si parla lo si fa senza più dire la verità. Si diventa poeti parlando per immagini e metafore.
Dal “chi sono io per giudicare” al “chi sono io per parlare” il passo era breve. Siamo dinanzi al dato di fatto che la maggioranza dei Vescovi in questo momento drammatico non parla, non interviene. Ciò non solo dinanzi alla negazione pratica di questa o quella verità di fede, come ad esempio l’indissolubilità del Matrimonio mediante il discernimento pastorale di Amoris laetitia, o la dottrina del sacramento dell’Ordine con il celibato che fa tutt’uno con esso, iscrivendosi nella sua ontologia sacramentale, ma anche in modo più clamoroso dinanzi al triste spettacolo della presenza di idoli pagani nel Tempio di Dio durante lo svolgimento del Sinodo sull’Amazzonia.
Certamente le ragioni per le quali si preferisce non parlare, che oggi significa soprattutto non esporsi per il rischio di una punizione severa, sono diverse. C’è infatti chi ha paura di perdere il suo incarico. Qualcun altro è ancora convinto di dover difendere strenuamente al di sopra di tutto l’unità della Chiesa e la comunione con il Papa per il bene dei fedeli. Dimenticando che questa unità e la stessa comunione con il Pontefice sono preservate dall’unità nella medesima fede professata da tutti e da ogni singolo fedele, si pensa forse che apparendo esternamente concordi con tutto ciò che il Vaticano o il Papa stesso dice e fa, si manifesti l’unità della Chiesa e i fedeli siano preservati dallo scandalo.
Di cosa dovrebbero ancora scandalizzarsi questi poveri fedeli? C’è uno scandalo più grave della perdita della fede, del suo uso politico, così da risultare piuttosto partigiani, alimentando fazioni e gruppi di resistenza di ogni tipo? Ci si lamenta della divisione tra tradizionalisti e conservatori da un lato contro progressisti e pastoralisti dall’altro. Come riconciliarli se manca l’unità nella fede?
Lo stesso discorso del possibile scandalo dei fedeli lo si faceva anni fa circa l’opportunità o meno di criticare (in senso etimologico di distinguere e giudicare) il Vaticano II cercando di studiare a fondo le cause del declino della fede nella Chiesa. Non bisognava toccare l’ultimo Concilio soprattutto per non confondere i fedeli già così sballottati da varie onde dottrinali.
Un discorso politico più che teologico. Chi ci dice però che i più smarriti poi siano i laici e non invece i signori chierici che discettano sulla fede con loro idee e sperimentano spesso le loro ideologie sulla pelle dei laici? Da uno strano e nuovo conciliarismo siamo arrivati a un nuovo papismo. Non certo ultramontano ertosi contro il gallicanesimo, bensì ultraoceanico: una sottomissione cieca al capo di turno come se l’infallibilità si ascrivesse ad ogni parola che si dice e a ogni gesto.
Tuttavia, la ragione principale per la quale tanti, troppi, non parlano e non osano neppure accennare a un segno di presenza, sembra essere il fatto che non hanno più la fede che dovrebbero annunciare e difendere nella sua ortodossia. Questa riluttanza nel parlare si è manifestata di nuovo e ultimamente in relazione alla questione riguardante il celibato sacerdotale, sia con l’evento del Sinodo Amazzonico che con la pubblicazione del “libro-bomba” di Ratzinger-Sarah sul tema. Solo pochi hanno preso le difese del celibato. Molti, quasi tutti, rimangono silenti e in attesa. Di cosa? Perché zitti? Una risposta la offre il card. Sarah in questo libro a quattro mani. Anch’egli si chiede come mai i vescovi non intervengono a favore del celibato che è una tradizione apostolica e che in primis interpella proprio loro quali successori degli Apostoli. Perché loro stessi ne soffrono la vincolabilità. Si tratta di una dottrina che sta stretta anche a loro. La vivono con fedeltà ma non se la sentono di imporla alle nuove generazioni.
Scrive Sarah:
«Ho l’impressione che per alcuni vescovi occidentali, o anche del Sud America, il celibato sia diventato pesante. Vi restano fedeli, ma non hanno il coraggio di imporlo ai futuri preti e alle comunità cristiane, perché ne sono insofferenti in prima persona. Li capisco. Chi potrebbe imporre un peso agli altri senza amarne il senso profondo? Non sarebbe forse questa una forma di farisaismo? Sono certo, tuttavia, che ci sia qui un errore di prospettiva. Se ben capito, il celibato sacerdotale, benché talvolta possa essere una prova, rappresenta una liberazione. Consente al sacerdote di innestarsi coerentemente nella propria identità di sposo della Chiesa»5.
Il celibato non è più compreso perché l’errore di prospettiva implica un errore dottrinale e viceversa. Come il celibato così anche l’indissolubilità matrimoniale. Sarebbe stato molto strano che aprendo una breccia nel cuore del Matrimonio indissolubile durante i due sinodi sulla famiglia si sarebbe poi rispettata l’indissolubilità del Sacerdozio celibatario secondo la volontà di Cristo e degli Apostoli. Matrimonio e celibato o sono conservati insieme o cadono entrambi. E proprio per conservarli entrambi bisogna rispettare il fatto che Matrimonio e Sacerdozio si escludono a vicenda.
Il problema è l’apostasia silente nella Chiesa, del tutto atipica perché non è il rigetto della fede sic et simpliciter, il rifiuto di credere come tale, ma la trasformazione della fede in un’altra cosa. Siamo dinanzi a un’apostasia liquida che affonda le sue radici nel tentativo più volte sperimentato di provare a separare l’aspetto dottrinale della Rivelazione da quello pastorale, vedendo il cominciamento della predicazione non nelle verità da credere ma nel come credere, giudicandone l’opportunità e le modalità. Qui il come è analizzato prendendo come metro di misura il tempo nel suo mero aspetto cronologico di successioni e di scorrimento costante. Questo “scorrimento” assurge perfino a luogo teologico della Rivelazione di Dio. È vero che Dio si comunica a noi nel tempo, ma in un tempo che è evento di grazia, l’irrompere del mistero, un kairos che dirige il kronos. Invece, la logica modernista sostituisce al tempo qualitativo della visita di Dio il mero scorrere quantitativo, che perciò diventa superiore allo “spazio” dell’incontro (al mistero che si rivela e rimane presente, in primis il Verbo incarnato) e all’evento rivelativo stesso, dato il suo fluire incessante. Quello iato tra aspetto noetico e dinamico della Parola di Dio, con il primato della pastorale rispetto alla dogmatica, dove si cerca di congelare quest’ultima e di dare spazio all’operosità prasseologica, ora si riflette in uno iato nelle coscienze, tra intelligenza e volontà. Così la forza di parlare viene meno. La fede si obnubila e muore.
Perché i pastori tornino a parlare è necessario che si torni a credere, che prevalga nella Chiesa l’unità della fede su tutte le altre possibili unità. Ma perché tutto il Corpo di Cristo, pastori e fedeli, torni a credere è necessario avere una regola di fede, una norma che ci diriga, la Traditio fidei. Da parola tabù, Traditio deve diventare di nuovo parola teologicamente pregnante ed espressiva della fede quale ricezione e trasmissione fedele attraverso gli Apostoli di quello che Cristo ha detto e ha fatto, senza aggiunte personali e senza riduzioni soggettive. Solo quando di nuovo quel «vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto» (1Cor 15,3), diventerà regola della predicazione dei vescovi e dei sacerdoti, allora e solo allora la fede tornerà ad essere annunciata, perché tornerà ad essere anche creduta.
[1] Alla forte presenza del Nominalismo che attanaglia la fede oggi ho dedicato l’Editoriale di Fides Catholica XIV (2/2019) 5-18, disponibile anche sul sito fidescatholica.com
[2] Cf fRancesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, n. 32.
[3] Cf fRancesco, Lettera Enciclica Laudato sì, nn. 216-221.
[4] La Parola di Dio fa conoscere una verità (aspetto noetico) e realizza al contempo ciò che significa (aspetto dinamico). Dio dice e le cose sono (cf. il racconto della creazione in Genesi 1); Gesù si rivela ad esempio quale Luce del mondo e guarisce il cieco nato (cf. Gv 9,1ss.). In questo intreccio tra aspetto noetico e dinamico della Parola di Dio si colloca anche il giusto legame tra dottrina e pastorale.
[5] R. saRah J. RatzingeR-Benedetto Xvi, Dal profondo del nostro cuore, Cantagalli, Siena 2020, p. 65.