Con la fede sottomettiamo l’intelligenza e la volontà a Dio. Crediamo con l’ausilio della ragione e dell’amore, scorgendo la presenza di Dio anche in mezzo a difficoltà e calamità varie. Più gli eventi contribuiscono a oscurare la presenza di Dio più dovremmo credere con una “fede pura”, scevra di sentimentalismi e di considerazioni carnali. Come la Vergine Maria che dal Calvario al Golgotha rimase unita a un Dio che tutti gli altri facevano fatica a riconoscere. Cosa succede invece oggi? Sappiamo riconoscere la presenza di Dio tra gli eventi difficili e umanamente così confusi come la presente epidemia? Dimenticando Dio tutto si risolve in un mero problema sanitario. Proprio qui il castigo divino sulle nostre intelligenze sempre più confuse?

Gesù è Re per diritto di nascita e per diritto acquisito, in virtù della sua Passione e Morte. È Re in quanto vero Dio e vero Uomo. Nulla sfugge alla sua regalità. Essa abbraccia tutto ciò che è materiale e tutto ciò che è spirituale. Ogni ambito del sapere, ogni dimensione dell’umano: la politica, la scienza, l’economia, la vita di ogni giorno, gli affari. Tutto è subordinato a Lui. Egli ha il primato in tutte le cose. Eppure, quando nella liturgia traduciamo la sua regalità universale con una regalità sull’universo – Cristo Re dell’universo – non stiamo forse restringendo l’ambito del suo impero? Infatti, non si parla più della regalità sociale, politica, culturale di Cristo, ma esclusivamente della sua regalità spirituale, invisibile, privata, che riguarda il cuore dei cristiani. Di qui molti problemi che ci affliggono come credenti.

I catari erano una setta di eretici medievali che a partire dall’XI secolo si diffuse soprattutto nel sud della Francia e nel nord Italia. Con radici manichee, postulavano due divinità all’origine del mondo: il dio buono e quello cattivo, ideatori chi dell’anima spirituale dell’uomo e chi del corpo. Nell’uomo vi era una divisione fondamentale risolvibile solo con una dura ascesi, la quale, tra le altre cose, prevedeva una continenza assoluta fino a condannare il matrimonio, più esecrando del libertinaggio. Seguivano un ferreo regime vegetariano nel cibo. Erano anche docetisti: consideravano l’umanità di Gesù mera apparenza, per cui la redenzione era un modo per spiritualizzarsi e innalzarsi in modo gnostico sopra gli altri. Condannavano anche la proprietà privata e la repressione dei delitti da parte dello Stato, tra cui la condanna alle pena di morte. La Madonna, ci dice il B. Alano della Rupe, consegnò a San Domenico di Guzman la missione di sconfiggere gli eretici con un’arma tutta particolare e non violenta: la recita del S. Rosario. Perché proprio il Rosario? Un esempio anche per i nostri giorni.

Con l’enciclica Laudato sì di Papa Francesco è invalso un modo ormai costante di riferirsi alla terra (casa comune) usando l’appellativo “madre”. Ciò perché San Francesco d’Assisi nel suo Cantico di Frate Sole loda il suo Signore anche «per sora nostra matre Terra». Si sente sovente che l’impegno ecologico integrale del cristiano è “prendersi cura della madre terra”, con una differenza sostanziale rispetto a ciò che diceva San Francesco. Infatti, mentre il Poverello d’Assisi loda il Signore per tutte le sue creature, definite indistintamente e rispettosamente “fratello, sorella o madre”, ora invece ci si riferisce alla terra quale mero elemento naturale, che può unire tutti gli uomini di buona volontà rendendoli fratelli in un impegno comune a-religioso, senza più un chiaro riferimento al «mi Signore». San Francesco prenderebbe le distanze da questa teoria ecologica paganeggiante.
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Sarebbe stato interessante poter porre a Papa Francesco qualche domanda nel suo colloquio con i gesuiti slovacchi, lo scorso 12 settembre 2021. In quell’occasione il Papa ha detto che è la libertà che ci fa paura. Sostanzialmente la libertà della novità, della diversità, del guardare in faccia alle persone nella Messa verso il popolo. Ecco perché ci si rifugia nel passato, scadendo nella rigidità e nel clericalismo. Una domanda poteva essere questa: è la libertà che oggi ci spaventa o non piuttosto la verità? La libertà non è illimitata. Potrei decidere anche di andare contro un muro con la mia libertà e di continuare a farlo nonostante che il muro mi respinga. Se decido di non farlo è in virtù della verità, del fatto che c’è un muro. Se non parto dalla verità la libertà è vuota: è un suicidio assistito o una chiesa che brucia.

San Pio da Pietrelcina, uno dei santi più affascinanti per la mole di carismi ricevuti, è stato anche uno dei più perseguitati nella Chiesa. Negli anni ‘20 del secolo scorso, due anni dopo le stigmate, inizia il suo Calvario. Il Padre Gemelli aprirà le danze. Si succederanno ben 70 visite apostoliche con altrettanti decreti di condanna emessi dal S. Uffizio. Le accuse erano le più clamorose, ma sempre le stesse: un uomo immorale, finto povero per le offerte che riceveva da tutto il mondo e uno psicopatico con delle stigmate causate dal suo autolesionismo. P. Pio oggi è acclamato come uno dei più grandi santi. Perché questo accanimento contro un uomo fragile e sempre obbediente? C’è una sola risposta: P. Pio era stato scelto per una missione speciale, di cui il suo stesso direttore spirituale, p. Benedetto da San Marco in Lamis, lo renderà edotto: essere “corredentore” a favore della Chiesa, salvare la Sposa di Cristo in un momento drammatico della sua storia.

Dopo una catechesi di Papa Francesco dedicata alla Legge di Mosè (11 agosto 2021), in cui, tra l’altro, il Papa diceva giustamente che «la Legge… non dà la vita, non offre il compimento della promessa, perché non è nella condizione di poterla realizzare», il Rabbino Rasson Arussi, Presidente della Commissione per gli Affari Interreligiosi del Gran Rabbinato di Israele, ha inviato una lettera al Papa chiedendo un chiarimento circa le sue espressioni, risultanti offensive al mondo ebraico. Cioè si considerava la Legge di Mosè obsoleta e si ritornava alla “dottrina del disprezzo” dei giudei. Il Card. Kurt Koch ha risposto a nome del Papa, ma complicando il problema. Il Papa, a suo dire, non aveva insegnato che «la Torah è sminuita o non più riconosciuta quale “via di salvezza per i giudei”». Sic! Ecco la toppa che strappa tutto il vestito. C’è dunque una via di salvezza per i giudei alternativa a Cristo? Ci sono due alleanze che si escludono a vicenda? Assurdo! Pur di coltivare rapporti di buon vicinato si omette di dire la Verità! Tuttavia, c’è un altro problema a monte e risiede nella dialettica tra legge e comandamenti posta da Francesco, che preparava la sua catechesi successiva secondo cui questi ultimi non sono assoluti!

La Vergine Maria che ha dato alla luce Gesù, «ostia pura, ostia santa, ostia immacolata» (dal Canone Romano) e ha partecipato all’immolazione del Figlio sul Calvario, «soffrendo profondamente col suo Unigenito e associandosi con animo materno al suo sacrificio, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei generata» (LG 58), deve essere pure presente in ogni celebrazione del Santo Sacrificio della Messa. Siccome la Messa è la ripresentazione del sacrificio del Calvario, in essa viene ripresentato anche l’atto oblativo che Maria fece del Figlio e di sé stessa in unione con Lui sul Golgota. Di conseguenza, anche la presenza materna di Maria ai piedi della Croce ritorna in modo mistico ai piedi di ogni altare. Tutto ciò ha una notevole incidenza nella vita spirituale del cristiano. Scoprire tale presenza significa iniziare a vivere il mistero della Messa ed essere ciò che Maria fu per Gesù.

La libertà è da sempre il vessillo dell’uomo. La si concepisce come giustificazione di tutte le sue scelte, indipendentemente dal fine e dalla legge, o perfino la si nega, riducendola a mera apparenza. Scrivendo ai Galati (cap. 5), San Paolo ci presenta la “vera libertà”: quella che ci è stata donata da Cristo, dall’essere resi giusti in Lui senza aver più bisogno di ricorrere alla Legge o di trovare in essa la salvezza. Che significa? È facile infatti vedere in ciò il manifesto della liberazione cristiana dai precetti morali. San Paolo in realtà insegna che ciò che conta è la fede che opera per mezzo della carità, a patto di non lasciarsi imporre di nuovo il giogo della schiavitù, vivendo secondo la carne.

Papa Francesco, esaminando la dialettica tra Legge (Torah) e fede in Cristo, ha concluso la sua ultima catechesi del mercoledì chiedendosi: «…disprezzo i Comandamenti? No. Li osservo, ma non come assoluti, perché so che quello che mi giustifica è Gesù Cristo». Questo insegnamento letto nel suo contesto non può che lasciare attoniti e smarriti. Se il Decalogo non è più assoluto, se cioè inizia a dipendere dal contesto storico e dalla nostra interpretazione, significa che è relativizzato e così l’agire morale è svuotato del suo contenuto. Francesco arriva a questa conclusione perché difatti identifica il Decalogo con la Legge, che è un pedagogo che ci ha condotto a Cristo. Il Decalogo, però, legge naturale prima ancora di essere cuore dell’Alleanza veterotestamentaria, fa sì parte della Legge (Torah) ma non l’esaurisce; quest’ultima è più ampia e contiene anche norme cultuali, sociali e alimentari. La fede ci libera da queste prescrizioni ma non dai Dieci Comandamenti che San Paolo, come già Nostro Signore, riassume nel comandamento più grande: la carità (cf. Gal 5,14 e Mc 12,28-31).