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di P. Serafino M. Lanzetta

Con la dichiarazione Fiducia supplicans (FS) del 18 dicembre 2023, il Dicastero per la Dottrina della Fede, con una certa fretta rispetto ai freschi risultati sinodali, ha chiesto a Papa Francesco ex audientia di approvare nuove benedizioni, create ad hoc «per coppie in situazioni irregolari» e «coppie delle stesso sesso». L’enfasi è posta sulla “coppia” in entrambi i casi. Pur di approvarla a livello di principio, giustificando  così i suoi atti morali,  si prova a separare l’aspetto liturgico della benedizione da un suo stadio precedente, “teologico” ma non rituale. Con quali risultati?

Bene-dicere ma senza dirlo

Una prima riflessione va fatta sulla distinzione tra benedizioni liturgiche e devozionali. Togliendo a queste ultime il loro status liturgico, sembra che si possa offrire una strada per poter comunque benedire le coppie summenzionate. Con un vero e proprio sofisma in atto. Questa benedizione nuova non deve essere  «un atto liturgico o semi-liturgico, simile a un sacramento» (FS 36). Ma rimane un sacramentale per essere una benedizione e non un’invocazione talismanica? FS distingue tra benedizioni liturgiche, legate cioè a un sacramento e benedizioni sacramentali in quanto date al di fuori dai sacramenti quali grazie attuali. Tutto questo riguarderebbe comunque «un punto di vista strettamente liturgico» in cui «la benedizione richiede che quello che si benedice sia conforme alla volontà di Dio espressa negli insegnamenti della Chiesa» (FS 9). Però, oltre a questo contesto «strettamente liturgico», ci sarebbe un terzo ambito “flessibilmente liturgico”. Infatti, a queste benedizioni si aggiungerebbero ora quelle estemporanee, di devozione o pastorali, le quali se da un lato risultano indipendenti rispetto al rituale della Chiesa, così da essere più elastiche e fruibili in tutte le svariate circostanze, anche in contraddizione con la volontà di Dio, dall’altro sono comunque rivestite dei connotati liturgico-teologico dei sacramentali. Infatti FS 31 dice così:

«Queste forme di benedizione esprimono una supplica a Dio perché conceda quegli aiuti che provengono dagli impulsi del suo Spirito – che la teologia classica chiama “grazie attuali” – affinché le umane relazioni possano maturare e crescere nella fedeltà al messaggio del Vangelo, liberarsi dalle loro imperfezioni e fragilità ed esprimersi nella dimensione sempre più grande dell’amore divino».

In modo equivoco, queste nuove benedizioni sono de facto equiparate ai sacramentali ma senza definirle tali, dando parvenza di aver creato una sottocategoria neutrale al mero fine di giustificare una benedizione di ciò che non è benedicibile perché oggettivamente contrario a Dio e alla sua creazione. Siamo dinanzi a benedizioni che sono sacramentali anonimi, come i “cristiani anonimi” di Rahner, cioè quelli che sono cristiani senza saperlo di essere perché in fondo l’essere cristiano appartiene non alla grazia ma alla natura che è tutt’uno con la grazia a livello di conoscenza. Il passaggio tra l’essere benedetti, seppur atematicamente o trascendentalmente, all’esserlo tematicamente o categorialmente, verrà col tempo, quando ormai grazie all’uso normale che si farà di queste benedizioni, sarà penetrato nella mente e nel cuore dei cristiani che si può benedire anche il peccato. Intanto emerge un nominalismo di fondo, caratteristica predominante di questi tempi: “benedizione” è un mero flatus vocis, cioè una parola che non dice ciò che significa, ma che esprime con lo stesso apparente significato un’altra realtà, ossia la legittimazione delle coppie irregolari e dello stesso sesso. Il nominalismo è l’asservimento dei concetti al potere. 

La grazia come diritto di tutti

Come non vedere anche il pericolo della naturalizzazione della grazia da un lato e la sua riduzione a diritto di tutti dall’altro? Due facce della stessa medaglia. La benedizione delle coppie irregolari e omosessuali, che sarebbe una specie sui generis di grazia attuale, è la giustificazione del peccato e la sua copertura mediante l’esigenza della grazia per tutti e in tutte le situazioni. In verità, la grazia attuale come mozione transeunte, non è una spinta soprannaturale anonima, offerta da Dio perché si rimanga nel peccato. Sarebbe blasfemo il solo pensarlo. È sempre una spinta verso il bene e verso la grazia santificante, perché l’uomo mediante la conversione si apra a Dio e accolga il dono della vita nuova, l’abito della grazia che dona la fede, la speranza e la carità soprannaturali. Queste benedizioni, invece, oltre ad essere incapaci di benedire, per il fatto che le grazia invocata sulla relazione di coppia è antitetica alla situazione oggettiva di peccato, hanno come effetto inevitabile quello di confermare le coppie nel loro status di disordine contrario a Dio.

Per ovviare a ciò si è provato a giustificare il principio di queste benedizioni, distinguendo tra le persone benedette e la coppia come tale o meglio l’unione che, quantunque in discordanza con il comandamento di Dio, non sarebbe l’oggetto proprio della benedizione. Si gioca con le parole. O la coppia si manifesta in virtù dell’unione e della relazione o non esiste. Tuttavia, è lo stessa dichiarazione FS che al n. 31 parla di benedizioni di «umane relazioni», cioè di relazioni contro natura. Non lo si dice, come non si parla mai di peccato, né di sodomia, ma è di questo che si tratta e in modo anonimo si prova a benedirlo. Non si parla neppure di conversione, né tantomeno di confessione per essere semmai assolti dal peccato. La mens del documento è più che chiara. Siamo dinanzi a benedizioni che vogliono essere tali senza dare parvenza di esserlo. Ma questo non fa contenti neppure i movimenti di promozione e di integrazione omosessuale, uno dei quali, quello cileno, ha definito FS una «una nueva e intolerable forma de exclusión» e «una medida apartheid». 

Il male intrinseco non esiste più

Qual è il problema alla radice di tutto? Con piacevole sorpresa, diversi episcopati, soprattutto le periferie, stanno dichiarando il loro netto rifiuto di FS. L’accento normalmente viene messo sull’incapacità di benedire le coppie omosessuali, dimenticando il più delle volte le coppie irregolari, cioè i divorziati risposati che pur intrattenendo una relazione eterosessuale vivono in difformità rispetto alla volontà di Dio espressa nel sacramento del matrimonio. Si tratta, in fin de conti, del medesimo problema morale che unisce le due categorie di coppie che ora si vuole benedire, con una gravità accentuata nel peccato di sodomia. L’apertura a queste benedizioni, o meglio l’accettazione definitiva del peccato oggettivo e intrinseco nelle coppie irregolari e dello stesso sesso, ha il suo inizio in Amoris laetitia (19 marzo 2016). È con questa Esortazione apostolica di Papa Francesco che si diede la stura. È con essa che si scrisse la parola fine all’intrinsece malum, cioè ai peccati intrinsecamente disordinati, quali appunto l’adulterio e la sodomia. Ricordiamo tutti le sterili polemiche ermeneutiche intorno a quella famosa noticina a piè di pagina, n. 356, che apriva sommessamente alla ricezione dei sacramenti per le coppie irregolari (“irregolare” allora sempre tra virgolette per segnarne il superamento, e invece ora senza). La ricezione dei sacramenti per queste coppie, seppur dopo un miracoloso discernimento, è stata nel frattempo confermata da un rescritto ufficiale del Papa, inserito negli Acta Apostolicae Sedis 108 (2016) 1071-1074. Con FS il discorso include anche le coppie omosessuali. Questa nuova noticina a piè di pagina domani confluirà in un documento più ampio e argomentato.

I vescovi sono stati silenti all’insorgere di Amoris laetitia, e con loro anche qualche cardinale che ora giustamente fa da leone, ma è questo documento che va rispettosamente criticato e urgentemente corretto in linea con Veritatis splendor (79-83). È lì il cambio di paradigma. Stranamente poi FS dice di essere una «riflessione teologica, basata sulla visione pastorale di Papa Francesco», che «implica un vero sviluppo rispetto a quanto è stato detto sulle benedizioni nel Magistero e nei testi ufficiali della Chiesa» (Presentazione). Uno sviluppo sicuramente c’è ma a modo di circolo autoreferenziale: da Amoris laetitia ad oggi, dalle coppie irregolari a quelle omosessuali, dopo un grande lavorio in vari sinodi che hanno preceduto quest’ultimo grande e interminabile. Cioè da Fernández a Fernández.

Il Sinodo più sinodale e la pastorale che tutto assorbe

Due ultime considerazioni in riferimento al metodo adottato. Con FS è confermato l’uso strumentale del Sinodo sul Sinodo, ora più che mai. Il Sinodo è un metodo vòlto a cambiare in modo pastorale la costituzione gerarchica della Chiesa e la sua dottrina. Tra le dottrine più a cuore agli organizzatori c’era il cambio da apportare in tema di omosessualità. Era da anni che si lavorava a questo. Con vari sinodi, quello sulla famiglia, quello amazzonico, poi sui giovani, ma sempre senza successo. Allora è stato ideato un sinodo che inglobasse il cambiamento come tale nel concetto stesso di sinodalità. È stato certamente sorprendente non trovare neppure la sigla LGBTQ+ nella Relazione di sintesi della prima Sessione, pubblicata il 28 ottobre 2023. Poteva sembrare una disfatta della macchina organizzativa. Invece no. In cantiere c’era FS, con un forte segnale di apertura del Papa stesso prima dell’inizio del Sinodo, in una risposta ai cinque cardinali che gli sottoponevano cinque nuovi dubbi. Il Papa apriva alla benedizione di coppie omosessuali a patto che non si confondesse con il matrimonio o con un sacramentale. Così, senza aspettare l’anno prossimo per la seconda fase romana del Sinodo sinodale, in modo molto poco sinodale, il Dicastero del Card. Fernández ha pubblicato FS.

Se da un lato e in modo sinodale si mostra tutta l’ambiguità dottrinale e la semplificazione pastorale della fede al limite del parossismo, una sorta di benedizioni “fai da te”, dall’altro FS rivela anche un problema di non poco rilievo, tipico di questi ultimi sessant’anni. Una seconda riflessione metodologica s’impone. FS è l’esempio più riuscito di sforzo pastorale che non solo afferisce la dottrina e la cambia, ma che si impone esso stesso come dottrina. Siamo dinanzi alla dottrina della prassi, ovvero ad una prassi che diventa dottrina e che impone ai fedeli e ai chierici l’accoglienza di sé in nome dell’autorità separata dalla verità. Come dottrina e prassi pastorale vanno sempre insieme e la seconda dipende ontologicamente dalla prima così anche verità e autorità. L’unica autorità è quella della verità e della ininterrotta trasmissione della fede e della morale: da Cristo attraverso gli Apostoli fino a noi. Invece da Giovanni XXIII a noi abbiamo imparato, ahimè, che altro è il deposito della fede e altro il modo di annunciare le verità che lo compongono, che può cambiare con un metodo più pastorale che esprimerebbe meglio l’indole del magistero. Con FS si mostra in modo lapalissiano e come infelice conclusione tutta l’insidia di quella distinzione. Il metodo, oltre a divenire dottrina esso stesso, è andato ben oltre, suggerendo nuove dottrine. A tutto ciò semplicemente diciamo: non licet!

Addendum: un “chiarimento” del Dicastero per la Dottrina della Fede

Il 4 gennaio 2024, il DDF ha emesso un comunicato stampa, per rispondere a una crescente e inaspettata reazione a FS da parte di numerose Conferenze episcopali o di singoli Vescovi e Cardinali. La principale preoccupazione del Card. Fernández è che il rifiuto episcopale di FS possa apparire quale opposizione dottrinale al suo Dicastero e, in ultima analisi, al Santo Padre, la cui unica e assoluta autorità è invocata dall’inizio alla fine. Si percepisce anche il sospetto di un’accusa indiretta di eresia da parte di Roma. Si potrebbe citare il detto latino: “excusatio non petita, accusatio manifesta” (una scusa non richiesta manifesta l’accusa), quando il comunicato stampa dice così:

Evidentemente, non ci sarebbe lo spazio per prendere le distanze dottrinali da questa Dichiarazione o per considerarla eretica, contraria alla Tradizione della Chiesa o blasfema.

Se non c’è spazio per tutto questo perché dichiararlo? Ciò che è ancora più sorprendente è che, nonostante la promessa di FS di non aspettarsi ulteriori interventi da parte del Dicastero per fornire i dettagli circa le nuove benedizioni – l’accento è sulla spontaneità – l’ultimo documento è tutto incentrato su questo, fornendo anche un esempio di benedizione e la sua durata (sic!). Purtroppo, il problema principale di FS rimane. Ancora una volta, anche se in modo pastorale, si cerca di rafforzare il principio dottrinale di fondo: le coppie irregolari e quelle dello stesso sesso possono essere benedette, mentre per la dottrina morale cattolica semplicemente non lo possono.

di P. Serafino Maria Lanzetta

Le testimonianze della tradizione

Nei Vangeli abbiamo pochi dati storici sulla nascita di Gesù ma sufficienti per custodire il mistero. Da Matteo e Luca apprendiamo che Gesù nacque a Betlemme di Giuda (cfr. Mt 2,1; Lc 2,4). Solo da San Luca sappiamo che non c’era posto “nella locanda” (o “nell’alloggio”) e che, per questo motivo, il bambino fu avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia (cfr. Lc 2,4-7). La visione tradizionale ritiene che Gesù sia nato in una grotta. L’unico riferimento biblico letterale è il fatto che Nostro Signore fu deposto in una “mangiatoia” (cfr. Lc 2,7: phátne). Tuttavia, ci sono testimonianze storiche dei primi Padri della Chiesa sulla nascita di Gesù in una grotta: San Giustino Martire (150 d.C.), secondo il quale Gesù è nato in una grotta utilizzata come stalla, anche se non proprio la tipica stalla in pietra e legno così familiare nella nostra arte cristiana; poi Origene (250 d.C.) e San Girolamo (325 d.C.). Nel 335 d.C. l’imperatore Costantino costruì la Basilica della Natività nel luogo in cui era stata individuata la grotta della natività di Gesù a Betlemme, grazie alle testimonianze storiche di questi primi Padri della Chiesa.

Formuliamo un’ipotesi che ci accingiamo a discutere: se la grotta della nascita di Gesù a Betlemme, su cui è stata costruita la Basilica della Natività, e che prima, nel 130 d.c., l’imperatore pagano Adriano, cercando di profanare i luoghi santi ebraici e cristiani in Palestina, aveva ironicamente contribuito a conservarne l’identità, non dovesse più essere il luogo della nascita di Nostro Signore alla luce di una nuova scoperta esegetica, questa nuova posizione potrebbe semplicemente mettere in discussione l’ormai plurisecolare accoglienza dell’autenticità storica di un sito così antico? Il nocciolo della questione, su cui penderebbe l’intera vicenda, è una diversa traduzione di una sola parola. Sarebbe ciò sufficiente per rinunciare all’assunto tradizionale?

Non c’era posto nella stanza degli ospiti?

Perché formuliamo quest’ipotesi? Più recentemente, a partire in particolare dagli studi di Kenneth Bailey (1930-2016, ministro presbiteriano, autore prolifico negli studi sul Medioriente nel Nuovo Testamento mediorientale), in particolare nella sua opera intitolata Jesus Through Middle Eastern Eyes. Cultural Studies in the Gospel (2008), la visione classica del luogo della nascita di Gesù è stata messa in discussione, favorendo una nuova teoria: Gesù sarebbe nato in una normale abitazione del tempo. Bailey segue l’interpretazione di Alfred Plummer (1841-1926, ecclesiastico e biblista della Chiesa Anglicana), nella sua opera Gospel According to St Luke, 5th ed., International Critical Commentary (1922).

Diversi argomenti sono portati a sostegno di questa nuova teoria. Innanzitutto il fatto che sarebbe stato quasi impossibile per Giuseppe, della casa di Davide, non trovare un luogo accogliente a Betlemme, città regale, dove Maria sua sposa avesse potuto partorire. Sarebbe stato impensabile che, bussando a qualsiasi porta e recitando la genealogia regale, non avesse trovato ospitalità per la notte. Questa manifesta incongruenza conduce a un secondo e più importante argomento esegetico. La parola usata da Luca per indicare la locanda in cui non c’era posto per la Sacra Famiglia è katáluma (da katá lúo) che significa sciogliere o slegare, cioè disarcionare i cavalli e slegare il proprio bagaglio, che quindi può alludere a un generico alloggio per uomini e bestiame. In effetti, alcuni autori, come Joseph Fitzmeyer SJ, in The Gospel according to Luke I-IX (1970), traducono katáluma con il termine generico di luogo ospitale (“lodge”), una sorta di caravanserraglio. Per Raymond E. Brown, nella sua opera The Birth of the Messiah (1977), Luca sembra più interessato a dire al suo pubblico dove Maria depose il bambino appena nato. Il fatto di ripetere per tre volte i dettagli relativi alle fasce e alla mangiatoia (cf. Lc 2,7.12.16) deve avere un significato notevole, soprattutto per il fatto che questa condizione unica si contrappone alla mancanza di spazio nell’alloggio. La menzione dell’alloggio è di secondaria importanza; non è il punto centrale, anche se per Brown, che conduce la sua ricerca con puro metodo storico-critico, “se la mangiatoia era antecedente a quella lucana nella tradizione, la mancanza di posto nell’alloggio può essere stata una vaga supposizione di Luca, per spiegare l’uso della mangiatoia”[1].  E se invece fosse il resoconto storico di ciò che è realmente accaduto? Perché escluderlo a priori? La tentazione di spiegare la nascita di Nostro Signore con i suoi vari elementi suggestivi come Midrash (interpretare o commentare una parola o un evento dell’Antico Testamento riprodotto nel Nuovo in virtù di una lettura teologica dell’evangelista, ma priva di alcun fondamento storico) è molto forte. Eppure, bisogna ricordare che la nascita di Nostro Signore, così come viene raccontata nei Vangeli, è unica nel suo genere. Ciò che Scott Hahn e Curtis Mitch dicono del Vangelo di Matteo può essere applicato anche a quello di Luca:

A differenza del midrash, la storia di Gesù dell’evangelista non si fonda su un testo dell’Antico Testamento. Mentre il midrash cerca di estrarre i significati più profondi dell’Antico Testamento, Matteo non cerca di interpretare l’Antico Testamento per se stesso. Più precisamente, Matteo non sta raccontando episodi dell’Antico Testamento, ma una storia completamente nuova! È una storia con nuovi personaggi ed eventi; è una storia che potrebbe stare in piedi da sola, a prescindere dalle sue citazioni dell’Antico Testamento. Matteo utilizza l’Antico Testamento per illuminare il significato della nascita di Gesù, non per determinarne in anticipo la trama e l’esito[2].

È vero, tuttavia, che quando Luca menziona una vera e propria “locanda”, nella parabola del buon samaritano che si prende cura di quell’uomo incappato tra i briganti (Lc 10,34), usa un altro termine, pandocheîon, che indica una locanda commerciale, dove generalmente venivano accolti viaggiatori e ospiti. Katáluma, più specificamente, è la parola che indica la “stanza superiore” dove Gesù celebra l’Ultima Cena con i suoi discepoli (Marco 14,14 e Luca 22,11; Matteo non menziona la stanza superiore). Si tratta chiaramente di una sala di ricevimento/stanza per ospiti in un’abitazione privata. La lettura di katáluma come “stanza degli ospiti” è qui preferita per il fatto che nel Vangelo di Luca due elementi già incontrati starebbero in contrapposizione tra loro: phátne e katáluma, potendo indicare quest’ultimo, ancora più genericamente, uno spazio in qualsiasi tipo di struttura. Quindi, la conclusione è che siccome non c’era posto nella stanza destinata agli ospiti, è molto probabile che Maria e Giuseppe siano stati ospitati nell’unica stanza destinata alla famiglia, che fungeva da soggiorno e da stanza da letto, dove c’era spazio anche per gli animali, sfamati in una o più mangiatoie incavate nel pavimento o costruite come elementi indipendenti. Maria avrebbe quindi partorito Gesù nel mezzo di una casa affollata, alla presenza di ospiti e familiari, anche se solo le donne, che fungevano anche da levatrici, erano ammesse al momento del parto. I pastori sarebbero arrivati e avrebbero trovato un’atmosfera familiare di festa, tale da poter annunciare subito la buona novella a tutte le persone lì riunite. Bailey conclude così le sue analisi:

I nostri presepi natalizi rimangono come sono perché “il bue e l’asino davanti a lui si inchinano, / ora che è nella mangiatoia”. Ma la mangiatoia era in una casa calda e accogliente, non in una stalla fredda e solitaria. Guardare la storia in questa luce elimina gli strati di mitologia interpretativa che si sono accumulati intorno ad essa. Gesù è nato in una semplice casa di villaggio con due stanze, come quella che il Medio Oriente conosce da almeno tremila anni. È vero, riscriviamo le nostre commedie natalizie, ma nel riscriverle la storia viene arricchita, non sminuita[3].

Alcuni principi della fede facilmente trascurati

In realtà, seguendo questa teoria, apparentemente convincente, che mira soprattutto a confortare Gesù e i santi Sposi liberandoli da una situazione di freddo isolamento come quello raffigurato dalla Tradizione, ci sono delle verità fondamentali della fede che rischiano di essere messe in discussione, quantunque in modo velato. Dovrebbe essere una preoccupazione per tutti i cristiani e non solo dei cattolici. Innanzitutto, chiediamoci, quale sarebbe il “segno” della nascita miracolosa del Messia, vero Dio e vero Uomo, se l’ambiente fosse quello di una normale abitazione, dove l’atmosfera di gioia e di festa promana dal festoso raduno di parenti e conoscenti venuti a Betlemme per il censimento più che per la nascita del Messia? Gesù sarebbe stato il protagonista del Natale in quella casa affollata? Il “segno” della sua nascita esprime il miracolo, deve essere trascendente e al tempo stesso comprensibile sia ai semplici che ai dotti, a tutti.

Il segno dato era “un bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia” (cfr. Lc 2, 11). Una mangiatoia all’interno del soggiorno di casa rappresenterebbe piuttosto un luogo ordinario in cui venivano custoditi gli animali e non indicherebbe nulla di speciale, al di là del suo significato immediato e tangibile. Se gli abitanti di Betlemme erano così ospitali, perché non offrire a quel Bimbo anche un luogo più confortevole, un semplice cuscino su cui adagiarlo, piuttosto che un incavo nel pavimento? Ma ciò che più stride con il racconto evangelico è il fatto che quando i pastori arrivarono non trovarono una calca di gente, ma semplicemente coloro che sono con il Bimbo i protagonisti del mistero del Natale. “Vennero in fretta – annota il Vangelo – e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino adagiato nella mangiatoia” (Lc 2, 16). Solo tre persone e sicuramente avvolte da un silenzio adorante. In effetti, il silenzio e la solitudine favoriscono la presenza del mistero.

Inoltre, se i pastori si fossero presentati in un’abitazione privata nella città di Betlemme, sarebbero stati accolti, visto che la loro condizione sociale, dovuta alla loro professione impura, li escludeva dalla vita civile? A meno che non si sia tentati di escludere la storicità dell’arrivo dei pastori alla mangiatoia, bisogna anche ricordare che queste persone umili e reiette erano state inserite in una lista di persone non idonee a essere giudici o testimoni, poiché pascolavano le loro greggi su terreni altrui. Oltre a essere considerati impuri, erano anche etichettati come disonesti. Come si spiega, allora, da un lato la loro esclusione sociale e dall’altro la possibilità di essere accolti in un’abitazione privata? Di più, la loro attività di evangelizzazione, raccontando a tutti del bambino e facendo meravigliare le persone che ascoltavano il loro messaggio (cfr. Lc 2,17-18), inizia solo dopo l’incontro con Cristo e in virtù dell’ausilio efficace della sua grazia. Arrivarono, racconta il Vangelo, videro il segno preannunciato dall’Angelo e capirono la parola rivolta loro riguardante il bambino (cfr. Lc 2,17). Vedrebbero e capirebbero se quella stanza fosse stata occupata da estranei all’evento miracoloso? Cosa c’è di veramente speciale, inoltre, se tutte le persone a cui i pastori annunciarono la grande novella si trovavano già nella casa dove erano stati accolti Maria e Giuseppe? C’era bisogno di evangelizzare quella famiglia e gli ospiti, se erano già alla presenza della Sacra Famiglia?

Il punto focale, comunque, è il segno della mangiatoia, attraverso il quale anche l’ambiente circostante, in qualche modo, partecipa all’essere segno dell’unicità di quel Bimbo, il nato Messia. La singolarità di quella nascita doveva essere colta da elementi esteriori straordinari che alludevano a una realtà interiore, pronta e facile da leggere. Vedendo il segno e constatando la veridicità della parola dell’angelo, arrivarono subito alla conclusione: questo bambino è il Cristo Signore. Possiamo ben supporre che i pastori siano stati i primi a essere chiamati per il fatto che, in qualche modo, hanno vissuto la stessa condizione del Messia appena nato, quella degli anawim, a cui appartenevano Maria e Giuseppe. Erano anche le uniche persone sveglie nella notte a vegliare sulle loro greggi. Erano vigili nella notte di quel mondo e pronti, nella loro umiltà, alla venuta di Dio. Con semplicità e fiducia avevano accolto la parola dell’angelo e si erano messi in cammino verso il Salvatore appena nato. Il Vangelo dice così: “E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro” (Lc 2,17). La parola detta loro rimandava al segno e il segno ora rimanda alla parola e li rassicura, li fa credere. Parola e segno si uniscono nella carne assunta dal Logos ed esprimono l’unità sacramentale della realtà invisibile e visibile, nel sacramento per eccellenza: il Verbo incarnato.

Ma c’è un altro dato importante su cui riflettere, quello decisivo. Se la Madonna ha partorito in una normale abitazione, in un via vai di gente e con donne che la assistevano, la conclusione logica è che il parto non è verginale. Un contesto familiare ordinario evoca immediatamente un parto ordinario. Una condizione esterna del parto verginale richiede che esso sia avvolto dal silenzio, dalla privacy e dall’intimità della Madre con il Figlio. Anche la presenza di Giuseppe non è richiesta in quel momento solenne. La verginità in partu della Madre è una nascita miracolosa, straordinaria, del Figlio, di Colui che passa attraverso il grembo della Beata Vergine senza intaccarlo, senza rotture né doglie del parto. Quel momento prelude alla risurrezione di Gesù, quando il suo corpo glorioso passò attraverso il lenzuolo funebre, la sindone, lasciandola stesa lì dov’era, cosa che fu davvero sorprendente per Giovanni e Pietro. Giovanni vide questo segno e credette nella risurrezione (cfr. Gv 20,4-8); e prelude pure all’ingresso di Nostro Signore nel cenacolo, sempre dopo la sua risurrezione, passando attraverso una porta chiusa (cfr. Gv 20,19). Il modo in cui Gesù è venuto al mondo si riflette in questi ultimi momenti solenni della sua vita, intessuti da un’esperienza comune: il silenzio e la riservatezza da occhi profani. Il mistero è sacro, deve essere messo necessariamente al riparo dalla profanità, altrimenti viene facilmente negato. La nascita in un normale ambiente domestico, nonostante una testimonianza antica e costante, trasmette l’idea di un momento “normale” nella vita di Giuseppe e Maria, dove, in realtà, il mistero è oscurato dal rumore e dalla profanità della vita. L’ipotesi di un “soggiorno” quale luogo di nascita di Gesù sembra favorire l’idea di un Natale gioioso, senza isolamento e tristezza vissuti dal Bambino Gesù, immerso piuttosto in un’atmosfera di festa. Eppure tutto ciò sembra rovinare, accanto agli stessi principi della fede, anche il significato stesso della gioia e perciò della festa.

La gioia promana dalla natività di Cristo, dal factum della sua nascita e non dalla situazione esterna di un ambiente accogliente e familiare. È il parto verginale di Maria, privo di dolore, eloquentemente gioioso, ad annunciare una gioia senza pari da trasmettere al mondo. I pastori sono stati i primi a farsi messaggeri di questa gioia perché l’hanno sperimentata loro stessi: una gioia che andava oltre le aspettative umane. Tutti coloro che ascoltavano gli umili pastori parlare del bambino si meravigliavano della buona novella diffusa in ogni dove: era nato il Cristo Signore. E Maria, la Madre di Gesù, colei che era pienamente consapevole del mistero verginale dell’Incarnazione e della nascita dell’Emmanuele, “conservava tutte queste parole, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Maria conserva le parole dei pastori, la loro fede nel mistero dell’incarnazione di Dio quale eco della parola del messaggero celeste. Il suo Cuore Immacolato custodiva le primizie di quella fede: è il luogo santo dove sono custoditi tutti i misteri della fede e la meraviglia dei primi credenti. Infine, un ultimo argomento per rifiutare l’ipotesi di un soggiorno familiare per la nascita di Gesù viene offerto proprio da questo atteggiamento interiore e altamente spirituale di Maria nel meditare quelle parole. Da ciò viene veicolata ancora una volta l’idea di un’atmosfera di raccoglimento, di silenzio e solitudine che avvolgeva la nascita di quel Bimbo. Solo Maria era con il Bambino nel momento mirabile della sua venuta al mondo, e pertanto il Bambino è con Maria. Madre e Figlio, Figlio e Madre, sono una cosa sola e rimangono in quell’unione che è tutta verginale.

Il Bambino con Maria sua Madre

Per convincersi di questa unione verginale tra il Bambino e sua Madre, a cui deve necessariamente fare eco un ambiente esterno adeguato, si può fare riferimento anche al Vangelo di Matteo. Qui, la verginità di Maria, funge da filo d’oro che unisce in modo speciale il Figlio con la Madre. Matteo, al capitolo 2, ripete cinque volte la stessa espressione, e cioè che il Bambino Gesù è con Maria sua Madre. Analizziamo queste espressioni che molto significativamente sembrano ripetere una “formula liturgica”. Il contesto è quello della visita dei Magi e della fuga in Egitto, seguita dal ritorno della Sacra Famiglia a Nazaret.

2,11: Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono.

2,13: Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto».

2:14 Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto,

2:20: Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele;

2:21: Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele.

È chiaro che il Bambino è indissolubilmente unito a Maria sua madre e che questo legame non può che essere la perpetua verginità di Maria. Gesù è l’unico Figlio di Maria, senza un padre, come è l’unico Figlio del Padre dei cieli, senza una madre, vero Dio e vero Uomo. Possiamo riassumere il tutto con il famoso motto di San Luigi Maria Grignion de Montfort: ad Jesum per Mariam. Nel silenzio della verginità di Maria, nella sua riservatezza divina, troviamo la vera culla della santa nascita di Gesù, che necessariamente riflette e modella quella materiale: l’austera grotta della nascita del Divin Pargoletto. O il mistero è un’unità di segno e realtà o semplicemente non è.

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[1] R.E.Brown, The Birth of the Messiah. A Commentary on the infancy narratives in Matthew and Luke (London: Geoffrey Chapman, 1977) Reprinted 1978, 419 (traduzione nostra).

[2] S. Hahn-C. Mitch, Ignatius Catholic Study Bible. The New Testament (San Francisco: Ignatius Press, 2010) 10 (traduzione nostra).

[3] K. Bailey, Jesus Through Middle Eastern Eyes. Cultural Studies in the Gospel (Downers Grove: IVP Academic, 2008) 36 (traduzione nostra).

 

di P. Serafino M. Lanzetta

Una delle preghiere insegnate ai tre pastorelli dall’Angelo a Fatima nel 1916 recita così: “Mio Dio, io credo, adoro, spero e Ti amo! Chiedo perdono per tutti quelli che non credono, non adorano, non sperano e non Ti amano”. Mio Dio, io credo! Senza la fede, inizio della nostra vita soprannaturale, non c’è adorazione né speranza. Che cos’è la fede? Il Catechismo (n. 143) insegna che

«con la fede l’uomo sottomette pienamente a Dio la propria intelligenza e la propria volontà. Con tutto il suo essere l’uomo dà il proprio assenso a Dio rivelatore. La Sacra Scrittura chiama “obbedienza della fede” questa risposta dell’uomo a Dio che rivela». 

Tuttavia è necessario purificare il nostro intelletto e la nostra volontà per poter credere in Dio. Infatti, se la mia anima è governata dai sensi, da sentimenti e giudizi emotivi o da cose che allettano la carne, è difficile credere in Dio. La vera fede richiede la morte dei miei sensi e delle mie inclinazioni carnali. Questo specialmente in tempi di angoscia e di calamità sociale, come l’attuale epidemia, quando è ancora più difficile decifrare la presenza e la volontà di Dio. Sebbene la vera fede non sia mai una cieca rinuncia alla ragione e ad un prudente discernimento, essa dovrebbe essere sempre “nuda”, per usare un’espressione di San Giovanni della Croce, o “pura” come la definisce San Luigi Grignion de Montfort, cioè senza alcun attaccamento umano. La vera fede non è compromessa con il nostro desiderio di trovare sempre un Dio propizio: qualcuno che ci aiuti ogni volta che ne abbiamo bisogno, pronto poi a dimenticarlo una volta che è passato il pericolo. La vera fede è invece la ricerca incessante di Dio, anche quando gli eventi e le avversità contribuiscono a nasconderlo di più o a rendere addirittura irrazionale la sua ricerca. Può sembrare sorprendente, ma la vera fede non è altro che una continua ricerca di Dio attraverso tutto ciò che lo nasconde, lo sfigura, lo distrugge e per così dire lo annienta. Non è forse vero che solo negando ciò che Dio è nel modo comune a tutti gli esseri si arriva a conoscere ciò che Egli è in modo singolare?

Un gesuita francese, padre Jean Paul de Caussade (1675-1751), espone tutti questi requisiti necessari per credere correttamente nella sua opera intitolata Abbandono alla Provvidenza divina. Ecco un testo in cui si spiega questo principio:

«La vita di fede non è altro che una continua ricerca di Dio attraverso tutto ciò che lo nasconde, lo rappresenta male e, per così dire, lo distrugge e lo annienta. È, certamente, la riproduzione della vita di Maria, la quale dalla stalla al Calvario rimane attaccata a un Dio che ogni altro fatica a riconoscere, abbandona e perseguita. Allo stesso modo, uomini di fede passano attraverso e oltre una continua successione di veli, ombre, apparenze e morti, per così dire, in cui ciascuna cosa fa il suo meglio per rendere la volontà di Dio irriconoscibile, ma nonostante ciò, fanno e amano la volontà divina fino alla morte di Croce. Sanno che le ombre devono essere sempre abbandonate per poter seguire questo Sole divino, il quale dal suo sorgere fino al suo tramonto, quantunque nere o pesanti possano essere le nubi che lo coprono, illumina, riscalda e fa brillare con amore i cuori fedeli, i quali lo benedicono, lo lodano e lo contemplano in tutti i punti della sua orbita misteriosa».

Ciò corrisponde a ciò che San Luigi Grignion de Montfort (1673-1716), contemporaneo del p. de Caussade, definisce «fede pura» piena di contraddizioni e di ripugnanza, che il servo di Maria vive ogni giorno, lasciando alla Madre celeste, Sovrana Regina, la chiara visione di Dio. È la Vergine che con la sua fede sostiene quella senza gusti sensibili del suo devoto figlio e che supplisce in tempo di oscurità. Si tratta perciò di partecipare alla fede perfettissima della Vergine Maria. Scrive così il Padre de Montfort:

«Lascia, o povera piccola schiava, lascia alla tua Sovrana la chiara visione di Dio, i trasporti, le gioie, i piaceri, le ricchezze, e prendi per te soltanto la fede pura, piena di svogliatezze, di distrazioni, di noie, di aridità; e dille: “Amen, Così sia, a tutto quello che Tu, mia Padrona, fai in Cielo: per ora è ciò che posso fare di meglio”» (Il Segreto di Maria, n. 51).

Com’è invece la nostra fede? Siamo pronti ad abbracciare la volontà di Dio fino alla morte spirituale di croce, o siamo desiderosi di abbandonare Gesù non appena le cose prendono una brutta piega? Crediamo ancora in Dio, in questo momento difficile, o crediamo piuttosto in noi stessi, nell’onnipotente scienza e tecnologia? Non siamo forse sedotti dal solo potere del vaccino, che è diventato un quasi-dogma, da esaltare come la panacea di tutti i problemi o da rifiutare come la più sottile trama per l’intorpidimento delle coscienze? Proprio riflettendo su questa epidemia-pandemia causata dal Covid-19, possiamo certamente dire che la nostra risposta di fede, come pastori e fedeli, è stata inadeguata, troppo umana, da Ministero della Salute. L’immagine che è così impressa nella mia memoria è il fatto che nella maggior parte delle chiese l’acqua santa è scomparsa, e proprio nell’acquasantiera ora è stato allocato il flacone disinfettante a spruzzo. Non c’è un modo per spruzzare anche l’acqua santa in modo sicuro e resistente al virus come facciamo con il gel sanificante?

I protocolli sanitari hanno la loro indiscutibile precedenza sulla nostra capacità morale di giudicare questa situazione e di essere rispettati in una scelta morale che può accettare il vaccino – la sua liceità morale è stata confermata dalla Congregazione per la Dottrina per la Fede – o rifiutarlo per una questione di coscienza, quando la persona non ne reputi necessaria la somministrazione. Quest’ultima opzione non deve ovviamente essere un pretesto per cadere nel libertarismo, ma una vera scelta etico-morale, soprattutto in relazione al crimine dell’aborto, al reale stato di necessità e all’efficacia del vaccino. Tra coloro che nella nostra Chiesa hanno ricevuto il vaccino e coloro che non l’hanno ricevuto non c’è alcun dialogo. Sembrano essere eterni nemici. Nessuna carità è riservata a questa faccenda, dividendoci più di quanto non abbiano fatto in passato le grandi eresie. Eppure il vaccino non è un dogma né una dottrina. Ciò che è rilevante in un giudizio morale è l’azione morale dell’uomo che sceglie il vaccino.

Dov’è la nostra visione soprannaturale? Dov’è Dio in tutto questo? Dov’è la nostra ricerca della Volontà di Dio sopra ogni altra cosa? Sembra che siamo così avanzati non solo tecnologicamente ma anche moralmente che Dio non ha alcun ruolo in questo momento. Di fatto facciamo tutto come se Lui non esistesse. La nostra fede è molto carnale e interessata.

Mio Dio, io credo, adoro… L’Angelo di Fatima ha insegnato questa preghiera anche in riparazione di questa tragica perdita di fede che si manifesta oggi con un’apostasia che si potrebbe definire liquida, senza contorni e senza confini. Dovremmo cominciare a credere con una fede pura, capace di vedere Dio al di là di questa pandemia, permessa da Lui per purificare la nostra vita. Possiamo dire che questa calamità attuale è soprattutto un castigo della nostra stessa intelligenza, troppo orgogliosa per vedere oltre se stessa e per lasciare spazio all’intervento di Dio? Dopotutto, molti pensano che siccome il virus è stato fabbricato in Cina e il vaccino è stato pianificato in anticipo con il virus, parlare della Provvidenza di Dio in questo contesto sarebbe sminuirne il valore. Ma tutto questo non conduce forse ad una visione deistica di Dio? Un altro modo per dimenticarlo e lasciarlo fuori da un mero gioco umano.

In questa confusione delle nostre menti, come una nuova Torre di Babele nella Chiesa, è necessario tornare a una fede pura e cominciare a credere. Abbiamo bisogno della fede della Madonna. Per la sua fede il Figlio di Dio è stato formato prima nella sua mente e poi nel suo grembo. Per la Sua fede Dio è uomo ed è con noi. Che il Suo Fiat sia pronunciato oggi per noi e in noi. Amen.

Guardando all’Immacolata Concezione, solennità che si approssima, possiamo riflettere meglio sulla verità del peccato originale, da cui Ella è stata preservata per una grazia speciale. G.K. Chesterton dice che certi nuovi teologi disputano sul peccato originale, eppure è l’unica parte della teologia cristiana che può essere veramente provata! Alcuni negano il peccato, che in realtà può essere visto anche tra le nostre strade. I santi più forti e i più forti scettici, in modo simile, prendono il male positivo quale punto di partenza del loro argomentare. Dovremmo, perciò, fare un’apologia del peccato originale perché anche gli scettici e gli atei si accorgano di Dio. Ma soprattutto dovremmo ammirare l’Immacolata per ritrovare la via che ci riporta a Lui.

La Vergine Maria che ha dato alla luce Gesù, «ostia pura, ostia santa, ostia immacolata» (dal Canone Romano) e ha partecipato all’immolazione del Figlio sul Calvario, «soffrendo profondamente col suo Unigenito e associandosi con animo materno al suo sacrificio, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei generata» (LG 58), deve essere pure presente in ogni celebrazione del Santo Sacrificio della Messa. Siccome la Messa è la ripresentazione del sacrificio del Calvario, in essa viene ripresentato anche l’atto oblativo che Maria fece del Figlio e di sé stessa in unione con Lui sul Golgota. Di conseguenza, anche la presenza materna di Maria ai piedi della Croce ritorna in modo mistico ai piedi di ogni altare. Tutto ciò ha una notevole incidenza nella vita spirituale del cristiano. Scoprire tale presenza significa iniziare a vivere il mistero della Messa ed essere ciò che Maria fu per Gesù.

La libertà è da sempre il vessillo dell’uomo. La si concepisce come giustificazione di tutte le sue scelte, indipendentemente dal fine e dalla legge, o perfino la si nega, riducendola a mera apparenza. Scrivendo ai Galati (cap. 5), San Paolo ci presenta la “vera libertà”: quella che ci è stata donata da Cristo, dall’essere resi giusti in Lui senza aver più bisogno di ricorrere alla Legge o di trovare in essa la salvezza. Che significa? È facile infatti vedere in ciò il manifesto della liberazione cristiana dai precetti morali. San Paolo in realtà insegna che ciò che conta è la fede che opera per mezzo della carità, a patto di non lasciarsi imporre di nuovo il giogo della schiavitù, vivendo secondo la carne.

Papa Francesco, esaminando la dialettica tra Legge (Torah) e fede in Cristo, ha concluso la sua ultima catechesi del mercoledì chiedendosi: «…disprezzo i Comandamenti? No. Li osservo, ma non come assoluti, perché so che quello che mi giustifica è Gesù Cristo». Questo insegnamento letto nel suo contesto non può che lasciare attoniti e smarriti. Se il Decalogo non è più assoluto, se cioè inizia a dipendere dal contesto storico e dalla nostra interpretazione, significa che è relativizzato e così l’agire morale è svuotato del suo contenuto. Francesco arriva a questa conclusione perché difatti identifica il Decalogo con la Legge, che è un pedagogo che ci ha condotto a Cristo. Il Decalogo, però, legge naturale prima ancora di essere cuore dell’Alleanza veterotestamentaria, fa sì parte della Legge (Torah) ma non l’esaurisce; quest’ultima è più ampia e contiene anche norme cultuali, sociali e alimentari. La fede ci libera da queste prescrizioni ma non dai Dieci Comandamenti che San Paolo, come già Nostro Signore, riassume nel comandamento più grande: la carità (cf. Gal 5,14 e Mc 12,28-31).

Quando Benedetto XVI nel 2007 stabilì che la Messa in rito antico potesse essere celebrata da tutti i sacerdoti senza alcun permesso, giustificò tale decisione dicendo che ciò che era sacro e grande ieri non può essere proibito o giudicato improvvisamente dannoso oggi. Papa Francesco, invece, con il nuovo Motu proprio “Traditionis Custodes” ha detto difatti che la Messa antica è dannosa e da limitare drasticamente nell’uso, fino ad auspicare la sua possibile sparizione. Questa decisione oltre che ad essere conflittuale nel suo interno: ad es., perché essere autorizzati a celebrare secondo un Messale che non è espressione della Lex orandi?, riapre ferite non rimarginate e pone dei problemi fondamentali. Eccone alcuni: — Una rottura del Vaticano II con i concili e il magistero precedente; — Che cos’è la Tradizione apostolica di cui i vescovi sono i custodi? Ora sembrano piuttosto i soldati; — Si acuisce lo scontro tra due Messali (che non sono la stessa cosa): quello del 1962 e quello del 1970 e con ciò la divisione nella Chiesa, ma non si risolve il problema; — Quale il futuro del Cattolicesimo?

Il Signore Gesù ci ha detto di non giudicare per non essere giudicati (Mt 7,1). Cioè non dobbiamo pretendere di sapere di una persona ciò che non appare ma che rimane nascosto. Solo Dio conosce il cuore e perciò può giudicare. Ma da qui dire che non si può giudicare ciò che è manifesto e probabilmente immorale significa semplicemente utilizzare una parola di Gesù per giustificare il peccato. Con la scusa dell’amore e del rispetto della persona si è costretti ad accettare ogni comportamento, anche quando contrario alla legge di Dio. Tipo in materia di omosessualismo, così imperante ai nostri giorni.

Il grande Sant’Alfonso de Liguori nelle sue Visite al SS. Sacramento e a Maria SS. ci ha insegnato a fare la Comunione spirituale, invocando Gesù Eucaristico perché venga nel nostro cuore quando non possiamo riceverlo sacramentalmente. La Comunione spirituale non è stata però mai intesa dal Santo napoletano come un’alternativa al Sacramento, ma piuttosto come un prolungamento spirituale in noi dei suoi effetti e come frutto più prezioso della visita eucaristica. Le condizioni richieste per farla veramente sono le medesime di quelle necessarie per ricevere l’Eucaristia.