Come la Teologia morale egemone ha usurpato il ruolo ecclesiale del Magistero
di Mons. Antonio Livi – Anno XIII. 1-2018 – sez. Editoriale – p. 5-27
Quello che ho spiegato in Vera e falsa teologia (1) sulla Teologia morale che parte da premesse epistemologicamente inadeguate è ampiamente confermato dalla ricezione teologica di Amoris lætitia, l’Esortazione Apostolica post-sinodale di papa Francesco pubblicata il 19 marzo 2016. Questo documento, come del resto gli altri del pontificato di Jorge Mario Bergoglio, oltre a far sua l’intenzione “pastorale” che aveva caratterizzato il Vaticano II (2), adotta di proposito un linguaggio più esortativo che dottrinale, con argomenti più retorici che razionali, basati più sul prestigio di cui oggi godono le cosiddette “scienze umane” che sull’autorità divina della Rivelazione. Proprio per questo Amoris lætitia è stata recepita dai teologi moralisti come se il Papa avesse voluto dismettere le vesti del supremo maestro della Fede e avesse ritenuto più utile alla Chiesa «riaprire il dibattito teologico» e limitandosi a esporre la propria opinione, che sarebbe meno legata al vecchio formalismo legalistico e più adeguata alla nuova “pastorale della misericordia” (3). Così facendo, papa Francesco incoraggia i teologi moralisti a ridurre gli insegnamenti del Magistero – che dovrebbero esprimere l’interpretazione autorevole del dogma – a mere ipotesi di interpretazione scientifica della Fede cristiana, intesa questa non più come l’adesione alla Verità rivelata, ma come l’“autocoscienza del popolo di Dio in cammino nella storia”(4).
Sull’onda dell’entusiasmo, molti teologi moralisti, ignorando (forse) la missione propriamente ecclesiale della scienza teologica, e oltrepassandone (certamente) il suo specifico limite epistemologico, hanno preso a “ripensare” (cioè a contestare o riformare) ogni insegnamento dei papi in materia di sessualità, matrimonio e famiglia, finendo per mettere in dubbio la possibilità che nella Chiesa si possa stabilire una norma morale certa alla quale la coscienza di tutti i credenti debba uniformarsi. Il che, peraltro, non costituisce una novità, visto che già nel 1968, dopo la pubblicazione dell’Humanæ vitæ, si era verificata una clamorosa contestazione del Magistero da parte di teologi che giudicavano l’insegnamento del Papa non teologicamente fondato.
Riferendosi proprio a questa contestazione, nel 1988, ossia venti anni dopo la pubblicazione dell’Enciclica di Paolo VI, il suo successore aveva detto:
«Durante questi anni, a seguito della contestazione di Humanæ vitæ, è stata messa in discussione la stessa dottrina cristiana della coscienza morale, accettando l’idea di coscienza creatrice della norma morale. In tal modo è stato radicalmente spezzato quel vincolo di obbedienza alla santa volontà del Creatore, in cui consiste la stessa dignità dell’uomo. La coscienza, infatti, è il “luogo” in cui l’uomo viene illuminato da una luce che non gli deriva dalla sua ragione creata e sempre fallibile, ma dalla sapienza stessa del Verbo, nel quale tutto è stato creato» (5).
È stato proprio papa Ratzinger, nel marzo 2018, a rilevare – in una lettera riservata a mons. Viganò che fu poi resa pubblica da quest’ultimo – come fosse assurdo che un teologo come Peter Hünermann, dell’università di Tubinga, si fosse messo ora a esaltare la “Teologia” di papa Bergoglio dopo che per decenni, assieme a Hans Küng, aveva contestato il Magistero di Giovanni Paolo II e dello stesso Benedetto XVI, del quale aveva detto che «è cresciuto nella vecchia epoca, con la vecchia teologia precedente il Concilio» (7). Ma Hünermann considerava Teologia “vecchia” e “pre-conciliare” (ossia non allineata alla rahneriana “svolta antropologica”) anche l’insegnamento di Paolo VI e di Giovanni Paolo II in materia di legge morale; agli autori dell’Humanæ vitæ e della Veritatis splendor il teologo tedesco aveva rimproverato di imporre ai fedeli delle “astratte prescrizioni morali”, presentandole come verità contenute nella Rivelazione cristiana (che per i teologi neomodernisti si riduce alla sola Scriptura, per di più interpretata con categorie “moderne”, quali l’Entmythologisierung), mentre in realtà le sono del tutto estranee, tanto che non se ne trova traccia nei documenti della Tradizione (che per i teologi neomodernisti si riduce alla Patristica del periodo anteniceno).
Ecco come la cosiddetta Kölner Erklärung, ispirata dallo stesso Hünermann, delegittimava il Magistero di Paolo VI:
«I concetti di verità fondamentale e di rivelazione divina vengono usati dal Papa per sostenere una dottrina estremamente specifica che non può essere fondata né ricorrendo alla Sacra Scrittura né rifacendosi alla tradizione della Chiesa» (8).
E così i teologi si ritengono in dovere di esimere i fedeli dall’obbedienza ai precetti della Chiesa:
«La norma sancita dall’enciclica Humanæ vitæ del 1968 in materia di regolazione delle nascite rappresenta semplicemente un orientamento che non sostituisce la responsabilità della coscienza dei fedeli» (9).
Ma i teologi che lamentano lo scarso fondamento biblico del Magistero in tema di morale dimenticano che proprio dalla Sacra Scrittura risulta l’assoluta obbligatorietà dei precetti morali della Chiesa, non esclusi quelli riguardanti l’uso della sessualità:
«Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù. Questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall’impurità, che ciascuno di voi sappia trattare il proprio corpo con santità e rispetto, senza lasciarsi dominare dalla passione, come i pagani che non conoscono Dio; che nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio fratello, perché il Signore punisce tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e ribadito. Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste cose non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo santo Spirito» (1Ts 4,1-8).
Una risposta alle critiche sulla “carente giustificazione teologica” degli insegnamenti pontifici fu tentata nel 2000 dall’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il card. Ratzinger. Egli smontava opportunamente uno degli argomenti contro la fondatezza degli insegnamenti morali del Magistero ordinario e universale del papa, quello secondo il quale il Vaticano II avrebbe limitato l’oggetto della Fede (i cosiddetti credenda) ai soli dogmi, mentre le norme da essi dedotte sarebbero da ritenere soltanto come mere ipotesi da tener presenti (i cosiddetti tenenda) senza sentirsene obbligati in coscienza. Il card. Ratzinger ribatteva che in realtà il Concilio ha mantenuto e addirittura rafforzato il valore dei credenda e denunciava come assolutamente “falsa” l’argomentazione di Hünermann, da lui stesso già tante volte confutata:
«Ho già affrontato in maniera particolareggiata le informazioni false che esistono a questo riguardo in due miei interventi in Stimmen der Zeit nel 1999 e in un mio contributo contenuto nel libro di Wolfgang Beinert, pubblicato in quello stesso anno, Gott – ratlos vor dem Bösen? e per questo sarò breve. Hünermann rivolge la sua critica contro il cosiddetto secondo livello della professione di fede, che distingue l’insegnamento valido e legato indissolubilmente alla Rivelazione dalla Rivelazione vera e propria. È assolutamente falso affermare che i Padri del primo e del secondo Concilio Vaticano avrebbero rifiutato espressamente questa distinzione. È invece vero proprio il contrario. Il concetto di Rivelazione è stato rielaborato all’inizio dell’età moderna con lo sviluppo del pensiero storico. Si cominciò a distinguere fra ciò che era stato effettivamente rivelato e ciò che derivava dalla Rivelazione, che non era da quest’ultima separato, ma neanche direttamente in essa contenuto. Tale storicizzazione del concetto di Rivelazione non era mai esistita nel Medioevo. Questa separazione fra i due piani ha assunto forma concettuale nel Concilio Vaticano I mediante la distinzione fra “credendum” (da credere) e “tenendum” (a cui attenersi). […].
È sufficiente sfogliare un qualsiasi libro di Teologia del periodo preconciliare per vedere che c’è scritto proprio questo, anche se dettagli della elaborazione del secondo livello rimasero motivo di discussione e lo sono ancora oggi. Il Concilio Vaticano II ha naturalmente accolto la distinzione formulata dal Concilio Vaticano I e l’ha rafforzata. Non riesco a capire come si possa affermare il contrario. Con insegnamenti a cui attenersi (“tenenda”) si intende qualcosa di più di “teologicamente ben fondati”, perché tutti i fondamenti teologici in realtà sono mutevoli. La letteratura annovera fra questi “tenenda” gli importanti insegnamenti morali della Chiesa (per esempio il rifiuto dell’eutanasia, del suicidio assistito), i cosiddetti fatti dogmatici (per esempio che i vescovi di Roma sono i successori di San Pietro), la legittimità dei concili ecumenici e così via)» (10).
Incuranti di questi chiarimenti, i teologi del dissenso hanno continuato a trasformare la proibizione della contraccezione contenuta in Humanæ vitæ in una liceità “caso per caso”, così come poi hanno contestato l’insegnamento di Veritatis splendor sugli intrinsece mala, ossia sulle azioni da considerare come obiettivamente contrarie all’ordine morale creato da Dio. Invece, dopo la pubblicazione dell’Amoris lætitia questi stessi teologi hanno sostenuto, con un caotico affastellamento di argomenti sofistici, che la “dottrina” in essa contenuta rappresenta un progresso teologico necessario e ormai irreversibile. Peter Hünermann, in un’opera collettanea dedicata proprio a esporre questo nuovo “dogma”, dà per definitivamente stabilito (dai teologi, s’intende, visto che papa Bergoglio non avrebbe fatto altro che dare ragione a loro) che la nozione di intrinsece mala va relativizzata; in effetti,
«esistono azioni intrinsecamente cattive, che non sono condizionate da circostanze esterne, ma che sono sicuramente condizionate da elementi interni. […] Sebbene l’uomo sia obbligato in coscienza ad osservare i principi etici generali e i comandamenti, e ad agire di conseguenza, la consapevolezza di ciò non può mai sostituire la decisione della sua coscienza, che egli deve prendere personalmente – perché l’universalità dei principi morali e dei comandamenti non può mai raggiungere pienamente la singolarità e la particolarità delle situazioni e delle azioni individuali. Entrambe le autorità rimangono [cioè la legge universale e i comandamenti da una parte e la coscienza dall’altra: nda]. Esse sono nel contempo distinte e inseparabili» (11).
A detta di Hünermann, papa Bergoglio, avendo recepito con Amoris lætitia l’istanza teologica di relativizzare la nozione di intrinsece mala, ha definitivamente accantonato la “Teologia” di Paolo VI e di Giovanni Paolo II:
«Ciò spiega perché Amoris lætitia non riporti certi passaggi di Familiaris consortio, di Veritatis splendor e del Catechismo della Chiesa Cattolica: è perché essi contengono delle erronee interpretazioni delle azioni intrinsecamente cattive. Affermazioni di Humanæ vitæ non sono citate, perché contengono un’estensione della legge etica naturale nella particolarità delle azioni individuali» (12).
Si capisce, da questo modo di esprimersi, che il teologo tedesco accetta Amoris lætitia non perché si senta in dovere di aderire agli insegnamenti di un papa, ma solo perché ritiene finalmente riconosciuta la giustezza delle sue critiche a tutti i papi precedenti, fino a Benedetto XVI. Ed è stato proprio quest’ultimo a smascherare tale ipocrita condotta in una lettera nella quale, a proposito dei libri su La Teologia di papa Francesco pubblicati dalla Libreria Editrice Vaticana (13), scrive:
«Vorrei annotare la mia sorpresa per il fatto che tra gli autori figuri anche il professor Hünermann, che durante il mio pontificato si è messo in luce per avere capeggiato iniziative anti-papali. Egli partecipò in misura rilevante al rilascio della Kölner Erklärung, che attacca in modo virulento l’autorità magisteriale di quel papa [Paolo VI], specialmente su questioni di teologia morale» (14).
Ratzinger, deprecando che ai papi non si riconosca l’unica cosa che conta, ossia l’effettivo esercizio della loro «autorità magisteriale», ricorda a Hünermann che gli insegnamenti ufficiali della Chiesa non equivalgono alle opinioni di “dottori privati”: questi insegnamenti hanno sempre e per tutti i fedeli – compresi gli stessi teologi – il valore aletico del Magistero ordinario e universale, anche in re morali. Ovviamente, la lobby dei teologi moralisti si è subito affrettata a respingere questo richiamo di Ratzinger e ha continuato a trattare le dottrine dei papi come mere opinioni che si possono e si debbono discutere.
Basti vedere come si è espressa Marie-Jo Thiel, dicendo che la European Society for Catholic Theology, della quale Peter Hünermann è stato il fondatore,
«non è mai stata concepita in opposizione al magistero pontificio. Sin dal suo inizio e fino ad oggi crediamo che abbia fornito una piattaforma paneuropea essenziale per il dialogo dei teologi cattolici di tutte le discipline teologiche in tutta Europa. In effetti, crediamo che il leale servizio dell’Esct alla missione della Chiesa abbia superato la prova del tempo e continui ancora oggi a facilitare una pluralità autenticamente cattolica di approcci teologici in risposta alle molte e urgenti sfide affrontate dalla nostra Chiesa in Europa».
Insomma, in nome di questa pretesa «pluralità autenticamente cattolica di approcci» si continua a negare che spetta al Magistero definire in modo formale e autorevole quel “nucleo dogmatico” che in ogni materia, anche di ordine morale, costituisce il limite invalicabile di ogni interpretazione. Esclusa la funzione propria del Magistero, parlare di «pluralità autenticamente cattolica di approcci» equivale a difendere il diritto a un’ermeneutica anarchica, dove vige il principio di Nietzsche: «Non ci sono dati di fatto ma solo interpretazioni». Ma la Teologia morale non dovrebbe temere la “concorrenza” del Magistero, visto che la funzione magisteriale della Chiesa non consiste nell’elaborazione di teoremi basati sui sempre mutevoli paradigmi adottati dalle scienze ausiliarie della Teologia, ma nella riproposizione autorevole del “nucleo dogmatico” della morale cristiana, costituito dalla legge eterna di Dio: una legge che la ragione umana naturale conosce mediante l’esperienza universale e necessaria del mondo creato (cf Rm 1,1) e che la Chiesa conferma recependo la Legge divino-positiva (il Decalogo), alla quale il Vangelo unisce la legge di Cristo, che non abolisce bensì perfeziona la legge naturale (cf Mt 5,17).
Gli insegnamenti morali del Magistero non dipendono – dal punto di vista della Logica aletica – né dalla dottrina seicentesca del “giusnaturalismo” né dalle categorie novecentesche del personalismo e della fenomenologia esistenziale: il Magistero non ha né il dovere né il diritto di adottare – come principio da cui dedurre le norme morali – una particolare dottrina etico-filosofica e tanto meno una delle tante ipotesi elaborate dalle scienze umane, come ad esempio la psicoanalisi (15). La Chiesa si basa su quelle norme della legge morale naturale che la stessa Sacra Scrittura assicura essere presenti nella coscienza di ogni uomo.
Per tutto ciò, gli insegnamenti della Chiesa in materia di morale coniugale vanno accettati come verità de fide catholica e vanno messi in pratica con un atteggiamento di obbedienza a Cristo. È quanto ricordava nel 1987 Giovanni Paolo II quando chiedeva ai coniugi cattolici di vivere santamente il matrimonio, adeguando la loro condotta alla Legge di Dio e resistendo alle pressioni ideologiche che la falsa Teologia esercita sull’opinione pubblica:
«Le difficoltà che incontrate sono di diversa natura. La prima, ed in certo senso la più grave, è che anche nella comunità cristiana si sono sentite e si sentono voci che mettono in dubbio la verità stessa dell’insegnamento della Chiesa. Tale insegnamento è stato espresso vigorosamente dal Vaticano II, dall’enciclica Humanæ vitæ, dall’esortazione apostolica Familiaris consortio e dalla recente istruzione “Il dono della vita”. Emerge, a tale proposito, una grave responsabilità: coloro che si pongono in aperto contrasto con la legge di Dio, autenticamente insegnata dalla Chiesa, guidano gli sposi su una strada sbagliata. Quanto è insegnato dalla Chiesa sulla contraccezione non appartiene a materia liberamente disputabile fra teologi. Insegnare il contrario equivale a indurre nell’errore la coscienza morale degli sposi»(16).
Evidentemente, il fatto che Karol Wojtyła, come filosofo, avesse apprezzato e utilizzato per le sue riflessioni l’antropologia fenomenologica del Novecento e in particolare la Wertethik di Max Scheler, non gli fu di impedimento per ribadire, come supremo dottore della Fede, che l’insegnamento morale della Chiesa non dipende affatto da ipotesi filosofico-scientifiche, quali che esse siano:
«Non si tratta di una dottrina inventata dall’uomo: essa è stata inscritta dalla mano creatrice di Dio nella stessa natura della persona umana ed è stata da lui confermata nella rivelazione. Metterla in discussione, pertanto, equivale a rifiutare a Dio stesso l’obbedienza della nostra intelligenza. Equivale a preferire il lume della nostra ragione alla luce della divina sapienza, cadendo così nell’oscurità dell’errore e finendo per intaccare altri fondamentali capisaldi della dottrina cristiana»(17).
Va detto, peraltro, che se i teologi continuano a trattare gli insegnamenti ufficiali della Chiesa (che a rigor di logica dovrebbero essere recepiti dai credenti per la loro valenza dogmatica) alla stessa stregua delle loro personali teorie (che sono mere ipotesi di interpretazione scientifica del dogma), ciò avviene come conseguenza di quella tendenza antidogmatica per cui spesso sono gli stessi documenti del Magistero a presentarsi come proposte di nuove elaborazioni concettuali e non come esplicazioni autorevoli della dottrina cristiana (18).
A ciò si aggiunge, dopo il Vaticano II, il ricorso sempre più frequente dei papi (da Paolo VI a Francesco) a esternazioni di carattere non magisteriale (discorsi d’occasione, conferenze, interviste a giornalisti e scrittori), che sono ovviamente riflessioni sulla dottrina cristiana che i papi fanno come “dottori privati” ma si presentano come un’illustrazione del senso e del significato del loro Magistero pubblico. Papa Benedetto XVI, che è considerato il “Papa teologo” per eccellenza, ha riservato non poco tempo del suo pur breve pontificato a scrivere saggi di Teologia che poi pubblicava avvertendo che non andavano considerati come atti del suo Magistero pontificio ma come sue personali opinioni scientifiche19. E così si è finito per includere indistintamente tutto (gli atti del Magistero come le opinioni personali) nel generico concetto di “Teologia”, tant’è che oramai si parla disinvoltamente di “Teologia del Concilio” o di “Teologia dei papi”, e si moltiplicano gli studi che mettono a confronto la “Teologia di Francesco” con quella dei papi che lo hanno preceduto.
In questo contesto ecclesiale estremamente confuso, i teologi progressisti, dismesse le vesti dei contestatori d’ufficio, hanno indossano quelle dei sostenitori del “Papa rivoluzionario” che avrebbe liberato la Teologia morale cattolica dal giuridismo, dall’estrinsecismo e dalla casistica. Dall’altra parte (dalla parte cioè dei teologi che disconoscono sistematicamente il nucleo dogmatico della morale cristiana), Amoris lætitia è stata considerata come una provvidenziale apertura alle istanze del personalismo e del soggettivismo moderno, il che comporta l’auspicata rottura con quella tradizione moralistica di impronta tridentina, giusnaturalistica e neoscolastica che ancora si ritroverebbe nei documenti teologico-morali di Paolo VI e di Giovanni Paolo II e nelle critiche che i cosiddetti “conservatori” hanno rivolto ad Amoris lætitia.
In prima fila tra gli entusiasti della “rivoluzione culturale” operata da papa Francesco c’è naturalmente il suo teologo di fiducia, Walter Kasper, autore del documento che introdusse i lavori delle due sessioni del Sinodo dei vescovi sulla famiglia20. Egli sostiene che Amoris lætitia costituisce una provvidenziale svolta, non nel Magistero ecclesiastico (termine che egli riserva alla Teologia antiquata), ma nella Teologia morale, grazie a un “cambio di paradigma” nella dottrina della Chiesa, «una sfida all’ulteriore riflessione teologica e a ripensare la prassi pastorale» (21).
La spiegazione di questa apparente contraddizione sta nel fatto che essi hanno sempre considerato gli insegnamenti dei papi che si sono succeduti sulla cattedra di Pietro dopo il Vaticano II non come atti del Magistero, ma come mere tesi (teologiche) in sintonia o in contrasto con i criteri da essi sostenuti riguardo alla sessualità, al matrimonio e alla famiglia. Amoris lætitia è stata insomma recepita come un documento che esprime le istanze di una determinata Scuola teologica, quella che in campo internazionale fa capo a Kasper e in Italia è rappresentata dal milanese Aristide Fumagalli, il quale infatti presenta Amoris lætitia proprio come espressione degli orientamenti di Teologia morale della sua Scuola (22).
Ecco allora che quei teologi (una minoranza) che sono restati fedeli al nucleo dogmatico della morale cristiana non potevano recepire Amoris lætitia come un atto del “Magistero” in senso proprio; per i cardinali Raymond Burke, Walter Brandmüller, Carlo Caffarra e Joachim Meisner, firmatari dei cinque Dubia, il motivo è che questo documento pontificio contiene tesi dottrinali equivoche e indirizzi pastorali volutamente ambigui, o persino tesi incompatibili con la Tradizione e tali da sovvertire l’intero ordinamento morale e canonistico della Chiesa, come hanno sostenuto i firmatari della Correctio filialis de hæresibus propagatis (23).
Più recentemente, un autorevole teologo americano, membro della Commissione Teologica Internazionale, ha detto:
«L’apparente approvazione di un’interpretazione della dottrina o della morale che contravviene a ciò che sono stati l’insegnamento ricevuto dagli Apostoli e la tradizione magisteriale della Chiesa – definiti dogmaticamente dai concili e dottrinalmente insegnati dai precedenti papi e dai vescovi in comunione con lui, così come accettati e creduti dai fedeli – non può essere proposta come insegnamento magisteriale. In materia di fede e morale, l’insegnamento di nessun papa vivente ha la precedenza apostolica e magisteriale sull’insegnamento magisteriale dei precedenti pontefici o sulla consolidata tradizione magisteriale della dottrina. […] Quindi il fatto che l’insegnamento ambiguo di papa Francesco a volte sembra fuoruscire dall’insegnamento magisteriale della comunità ecclesiale che risale agli apostoli dà motivo di preoccupazione, perché, come detto sopra, favorisce la divisione e la disarmonia piuttosto che l’unità e la pace nell’unica Chiesa apostolica» (24).
Ma allora, tanto i teologi che esaltano Amoris lætitia quanto quelli che la criticano sono d’accordo sul fatto che questo documento pontificio non esprime tanto la dottrina della Chiesa, che è sempre un’interpretazione autentica del dogma, quanto piuttosto l’opinione oggi prevalente tra i teologi. Peraltro, Amoris lætitia è l’ultimo di una lunga serie di documenti con i quali la Chiesa ha fornito degli indirizzi pastorali senza saperne o volerne mostrare il necessario rapporto con il nucleo dogmatico della dottrina, il che ha inevitabilmente portato a pensare che quegli indirizzi pastorali riflettessero più che altro le opinioni di certi teologi. Ora però, siccome in un dibattito teologico qualsiasi tesi viene giudicata in base alle giustificazioni razionali che è in grado di esibire, anche gli insegnamenti del Magistero, così presentati, finiscono per essere accettati solo se appaiono convincenti le ragioni (bibliche, filosofiche, antropologiche, fenomenologiche, sociologiche) con cui vengono argomentati.
Data questa confusione di ruoli, non ci si deve sorprendere se persino il Papa Emerito Benedetto XVI, parlando da teologo, considera normale che un documento dottrinale del Magistero sia giudicato in base alla sua consistenza “scientifica”. Rispondendo a Peter Seewald, Ratzinger racconta quale era stato l’atteggiamento suo e degli altri teologi del suo ambiente quando Paolo VI aveva promulgato l’Enciclica Humanæ vitæ:
«Nella mia situazione, nel contesto del pensiero teologico di allora, l’Humanæ vitæ era un testo difficile. Era chiaro che ciò che diceva era valido nella sostanza, ma il modo in cui veniva argomentato per noi, allora, anche per me, non era soddisfacente. Io cercavo un approccio antropologico più ampio. E in effetti papa Giovanni Paolo II ha poi integrato il taglio giusnaturalistico dell’enciclica con una visione personalistica» (25).
Facendosi forte di questa dichiarazione di Benedetto XVI, un teologo moralista italiano ha creduto di dover difendere l’Enciclica Humanæ vitæ dalle proposte di “riforma” avanzate dai teologi progressisti ricordando che papa Paolo VI aveva recepito i consigli del card. Karol Wojtyła e rivendicando
«l’originalità del contributo wojtyliano alla preparazione di Humanæ vitæ, contributo che fu compreso nel suo valore da Paolo VI e che risultò addirittura decisivo nella formazione del suo stesso magistero. Infatti, superando le ristrettezze della contrapposizione tra l’impostazione giusnaturalistica e legalistica tradizionale, ma anche l’unilateralità di un personalismo spiritualista, sganciato dalla natura, che ciascuno per la sua parte non potevano rendere conto pienamente né del valore positivo della sessualità coniugale il primo, né del carattere personale della procreazione il secondo, la visione proposta da Wojtyła mostra come la piena fedeltà alla tradizione dottrinale della Chiesa possa venire pienamente onorata, anzi più radicalmente fondata, proprio in una rinnovata comprensione personalistica dell’amore coniugale. Il legame tra dimensione unitiva e dimensione procreativa dell’intimità sessuale è perciò fondato in una valorizzazione piena del carattere personale del corpo umano, nella sua differenza uomo/donna e nella sua apertura alla generazione di nuove vite» (26).
Il ragionamento di Melina segue la medesima logica contorta che si rileva nell’evocazione storico-teologica fatta da Ratzinger: per riconoscere la “validità” della “sostanza” di un insegnamento morale come quello dell’Enciclica di Paolo VI non bastava l’autorevolezza ecclesiale di un papa che impegna l’infallibilità del suo Magistero “ordinario e universale” per aiutare il popolo cristiano a osservare i Comandamenti di Dio nelle circostanze della società contemporanea: occorreva anche valutare se fossero “soddisfacenti” le ragioni (filosofiche) addotte per “argomentare” (ossia giustificare) tale insegnamento pontificio de re morali.
Per il teologo Ratzinger non era soddisfacente il (preteso) “giusnaturalismo” di papa Montini (amico del tomista Jacques Maritain), che in realtà si riferisce ai principi della legge morale naturale, esplicitamente presupposti dalla rivelazione soprannaturale, sia come suoi præambula sia come enunciati espliciti della Legge divina positiva, compendiata nel Decalogo; fu invece soddisfacente il (preteso) “personalismo” di papa Wojtyła. Insomma, nemmeno un teologo come Joseph Ratzinger, che è stato vescovo, cardinale, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e infine papa, avverte l’assurdità di pretendere che una dottrina della Chiesa, che i cattolici sono tenuti ad accettare e praticare per un motivo di Fede, sia recepita o rifiutata sulla base di pretese ragioni filosofiche, che poi si riducono a sofismi costruiti con le incerte categorie delle scienze umane (sociologia della cultura, antropologia culturale, psicologia, psicoanalisi, fenomenologia esistenziale). Ma a questa situazione si è arrivati per via dell’intenzionale riduzione metodologica del Magistero a mera Teologia, proprio nel momento in cui si verificava la riduzione metodologica della Teologia a mera “filosofia religiosa”.
La riduzione degli insegnamenti ufficiali del Magistero in materia morale a mere opinioni teologiche basate su vecchie o nuove categorie filosofiche – le categorie “nuove” sarebbero quelle ispirate all’antropologia trascendentale di Karl Rahner (27) – e su presunte acquisizioni delle scienze umane apre la strada a un’ulteriore riduzione epistemologica, quella per cui il Magistero elimina dalla pastorale la componente dottrinale e si limita a suggerire nuove tattiche di “dialogo” con quella che è considerata la cultura dell’uomo moderno e con cui si suppone informare anche la coscienza dei fedeli cattolici.
Dando per perduta la battaglia per la formazione di una retta coscienza morale tra i fedeli (parte integrante di quella “nuova evangelizzazione” che era stata promossa da papa Giovanni Paolo II), la Chiesa ritiene di poter sopravvivere solo cercando di parlare il linguaggio della società secolarizzata e professando un’incondizionata condivisione dei valori etico-sociali riconosciuti dall’opinione pubblica. Ed è proprio questa duplice riduzione metodologica ciò che ha consentito l’usurpazione, da parte della Teologia, di quell’autorità carismatica che, in rebus fidei et morum, spetta solo al Magistero: usurpazione che ha provocato la paradossale situazione per cui oggi
«il magistero pone prevalentemente domande, i dubbi si infittiscono, le risposte non arrivano, segno che il ruolo del magistero si sta configurando all’insegna della questionabilità, ossia del mettere in questione la fede dei fedeli anziché nel confermarla. […].
C’è tutta una teologia che implica questo cambiamento e che lo teorizza da molto tempo. La Chiesa renderebbe un servizio a Dio quando impedisse il configurarsi della sua rivelazione in leggi e norme. Essendo astratte, queste leggi e norme rinchiuderebbero Cristo dentro una prigione, lo incasellerebbero in dogmi etichettati, lo isolerebbero dalla vita nella quale il suo messaggio continua ad esprimersi, perché la rivelazione di Dio avviene nella vita. Mi permetto di adoperare due parole tecniche: la categorizzazione del messaggio cristiano impedirebbe la sua dimensione trascendentale. Il messaggio verrebbe trasformato in ideologia, mentre deve sempre restare aperto a nuovi apporti. Per questo la Chiesa esiste, secondo tante correnti della teologia contemporanea, per impedire queste cristallizzazioni ideologiche che impongono di “giudicare”, e questo ruolo la Chiesa lo svolge ponendo in questione tutte le assunzioni di senso e insegnando a non giudicare. Il suo ruolo consisterebbe nell’essere fonte di libertà critica.
In questo modo è possibile confermare, che so, gli insegnamenti di Giovanni Paolo II sull’eutanasia, quelli di Benedetto XVI sui principi non negoziabili o quelli di Paolo VI sulla contraccezione… e nello stesso tempo metterli in questione, perché non pretendano di racchiudere in sé la totalità del senso rivelato, trasformandolo così in ideologia. Si tratta, possiamo dire, di una concezione hegeliana della verità come storia. L’unico modo per dare ragione degli insegnamenti precedenti è metterli in questione per liberarli dal loro fissismo e permettere allo Spirito di continuare ad educare il suo popolo attraverso la vita e nella vita» (28).
La situazione pastorale descritta in questi precisi termini da un filosofo italiano corrisponde perfettamente all’esplicita intenzione di papa Francesco di trasformare gradualmente il Magistero della Chiesa, che ormai non deve più enunciare verità dogmatiche e morali che impegnino il proprio carisma di infallibilità, ma deve “avviare processi di riforma” con discorsi che apparentemente si rifanno alla verità assoluta della Rivelazione divina, ma sostanzialmente la relativizzano.
Infatti papa Bergoglio, nella recente Esortazione Apostolica Gaudete et exsultate, che riprende molti suoi pronunciamenti anteriori, fa sue le “ragioni” di quei teologi che hanno voluto re-interpretare la Fede cristiana in forme storico-dialettiche, rendendo inutile, anzi addirittura enti-evangelica, la funzione magisteriale di definire i dogmi e di stabilire le norme morali. Paradossalmente, questo documento pontificio, mentre sembra canonizzare un’interpretazione del Cristianesimo antidogmatica, soggettivista, storicista (quella postulata dalla filosofia religiosa oggi dominante), anatematizza l’interpretazione contraria, che poi non è propriamente di una Scuola teologica, ma è il principio logico che ha ispirato tutto il Magistero pre-conciliare e gran parte di quello post-conciliare.
E così Gaudete et exsultate polemizza severamente contro chi, invece di professare una «fede debole» (secondo la pretesa di Gianni Vattimo), obbedisce al precetto scritturistico di restare «saldi nella fede» (1Cor 16,13-14) e pertanto non dubita della verità assoluta contenuta nelle formule dogmatiche (che la Chiesa ha sempre presentato come certissima regula fidei) e regola la propria condotta (in privato e in pubblico) in base alle norme morali certamente derivanti dalla legge naturale e dal Vangelo. A questi fedeli – tra i quali sono indicati implicitamente gli autori dei Dubia e della Correctio filialis – il Papa antidogmatico riserva, paradossalmente, l’accusa di incorrere in una duplice eresia, lo gnosticismo e il pelagianesimo:
«Sono due eresie sorte nei primi secoli cristiani, ma che continuano ad avere un’allarmante attualità. Anche oggi i cuori di molti cristiani, forse senza esserne consapevoli, si lasciano sedurre da queste proposte ingannevoli. In esse si esprime un immanentismo antropocentrico travestito da verità cattolica. Vediamo queste due forme di sicurezza dottrinale o disciplinare che danno luogo “ad un elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente” [Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, § 34]» (29).
Quando poi papa Bergoglio, citando abbondantemente i suoi precedenti interventi in materia, passa a illustrare la fenomenologia ecclesiale di una delle due pretese “eresie”, quella dello gnosticismo, sembra che il suo obiettivo polemico siano le argomentazioni di coloro che (come ha fatto il teologo moralista Carlo Caffarra) hanno difeso la validità perenne della nozione di verità divina definita, ossia la concezione “dogmatica” della Fede e l’assolutezza dei principi morali fondamentali. Ad essi il Papa rivolge questo aspro rimprovero:
«Lo gnosticismo suppone “una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti” [Evangelii gaudium, § 94]. […].
Grazie a Dio, lungo la storia della Chiesa è risultato molto chiaro che ciò che misura la perfezione delle persone è il loro grado di carità, non la quantità di dati e conoscenze che possono accumulare. Gli “gnostici” fanno confusione su questo punto e giudicano gli altri sulla base della verifica della loro capacità di comprendere la profondità di determinate dottrine. Concepiscono una mente senza incarnazione, incapace di toccare la carne sofferente di Cristo negli altri, ingessata in un’enciclopedia di astrazioni. […] L’equilibrio gnostico è formale e presume di essere asettico, e può assumere l’aspetto di una certa armonia o di un ordine che ingloba tutto. […] Perché è anche tipico degli gnostici credere che con le loro spiegazioni possono rendere perfettamente comprensibili tutta la fede e tutto il vangelo. Assolutizzano le proprie teorie e obbligano gli altri a sottomettersi ai propri ragionamenti. Una cosa è un sano e umile uso della ragione per riflettere sull’insegnamento teologico e morale del vangelo; altra cosa è pretendere di ridurre l’insegnamento di Gesù a una logica fredda e dura che cerca di dominare tutto. Lo gnosticismo è una delle peggiori ideologie, poiché, mentre esalta indebitamente la conoscenza o una determinata esperienza, considera che la propria visione della realtà sia la perfezione. […].
Quando qualcuno ha risposte per tutte le domande, dimostra di trovarsi su una strada non buona ed è possibile che sia un falso profeta, che usa la religione a proprio vantaggio, al servizio delle proprie elucubrazioni psicologiche e mentali. Dio ci supera infinitamente, è sempre una sorpresa e non siamo noi a determinare in quale circostanza storica trovarlo, dal momento che non dipendono da noi il tempo e il luogo e la modalità dell’incontro. Chi vuole tutto chiaro e sicuro pretende di dominare la trascendenza di Dio. […]
Noi arriviamo a comprendere in maniera molto povera la verità che riceviamo dal Signore. E con difficoltà ancora maggiore riusciamo ad esprimerla. Perciò non possiamo pretendere che il nostro modo di intenderla ci autorizzi a esercitare un controllo stretto sulla vita degli altri. Voglio ricordare che nella Chiesa convivono legittimamente modi diversi di interpretare molti aspetti della dottrina e della vita cristiana che, nella loro varietà, “aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola”. Certo, “a quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione” [Evangelii gaudium, § 40]. Per l’appunto, alcune correnti gnostiche hanno disprezzato la semplicità così concreta del vangelo e hanno tentato di sostituire il Dio trinitario e incarnato con una unità superiore in cui scompariva la ricca molteplicità della nostra storia. In realtà, la dottrina, o meglio, la nostra comprensione ed espressione di essa, “non è un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi”, e “le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’in carnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi ci interrogano” [videomessaggio al Congresso Internazionale di Teologia della Pontificia Università Cattolica Argentina, 1-3 settembre 2015]» (30).
Anche nell’esplicazione dell’accusa di pelagianesimo ricompare la polemica – che, paradossalmente, riecheggia gli argomenti dell’eresia luterana – nei confronti di chi conserva una concezione dogmatica della Fede, dalla quale deriva anche la certezza (di fede, non ideologica) di doversi attenere alle norme di condotta definite dalla Chiesa:
«Lo gnosticismo ha dato luogo ad un’altra vecchia eresia, anch’essa oggi presente. Col passare del tempo, molti iniziarono a riconoscere che non è la conoscenza a renderci migliori o santi, ma la vita che conduciamo. Il problema è che questo degenerò sottilmente, in maniera tale che il medesimo errore degli gnostici semplicemente si trasformò, ma non venne superato. Infatti, il potere che gli gnostici attribuivano all’intelligenza, alcuni cominciarono ad attribuirlo alla volontà umana, allo sforzo personale. Così sorsero i pelagiani e i semipelagiani. Non era più l’intelligenza ad occupare il posto del mistero e della grazia, ma la volontà. Si dimenticava che tutto “dipende [non] dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia” [Rm 9,16] e che Egli “ci ha amati per primo” [1Gv 4,19]. Quelli che rispondono a questa mentalità pelagiana o semipelagiana, benché parlino della grazia di Dio con discorsi edulcorati, “in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico” [Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, § 94] […].
Ci sono ancora dei cristiani che si impegnano nel seguire un’altra strada: quella della giustificazione mediante le proprie forze, quella dell’adorazione della volontà umana e della propria capacità, che si traduce in un autocompiacimento egocentrico ed elitario privo del vero amore. Si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente diversi tra loro: l’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, la vanagloria legata alla gestione di faccende pratiche, l’attrazione per le dinamiche di auto-aiuto e di realizzazione autoreferenziale» (31).
Come si vede, nel discorso di papa Francesco non c’è, sostanzialmente, la doverosa riaffermazione della Verità rivelata e della fede incondizionata ad essa, ma la polemica contro chi resiste all’egemonia di una Scuola teologica, quella che concepisce la Fede come sentimento soggettivo (la fides fiducialis): un sentimento privo di premesse razionali e pertanto mai esente dal dubbio e mai realmente vincolato alla verità della rivelazione pubblica, che spetta al Magistero definire e difendere nel suo “nucleo dogmatico”. Insomma, sembra che oggi il Magistero rinunci alla funzione ecclesiale di ribadire autorevolmente, in ogni momento storico e in ogni congiuntura culturale, la regula fidei. Ma così è impossibile mantenere la necessaria distinzione tra ciò che è dogmatico e ciò che è opinabile riguardo alla dottrina cristiana e alle sue possibili interpretazioni: non resta che la dialettica tra le Scuole teologiche, e la fede – sia come atto del soggetto (la fides qua creditur) che come suo oggetto (la fides quæ creditur) – diventa una nozione equivoca (32). È il carattere equivoco della “filosofia religiosa”, oggi egemone nelle strutture teologico-pastorali della Chiesa, a impedire il discernimento tra ciò che va creduto per fede e ciò che invece può essere eventualmente tenuto presente come mera ipotesi di interpretazione. La difficoltà a operare tale discernimento ha provocato nella Chiesa un penoso “disorientamento pastorale” (33). Ma io confido che Fides Catholica contribuisca alla necessaria ripresa della vera teologia (34): una Teologia che potrà svolgere la sua indispensabile missione ecclesiale a favore dell’intellectus fidei se saprà dialogare con il Magistero senza tentare di sostituirsi ad esso, ma limitandosi a fornire alla Chiesa ipotesi di interpretazione scientifica del dogma che possano servire a eventuali nuovi pronunciamenti magisteriali – come nel passato è felicemente avvenuto – nel senso di uno «sviluppo omogeneo del dogma cattolico»(35).
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1. Cf A. Livi, Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca filosofia religiosa, quarta edizione con un’appendice su Gli equivoci della teologia morale dopo la “Amoris lætitia”, Leonardo da Vinci, Roma 2018.
2. Si vedano: S. M. Lanzetta, Il Vaticano II, un Concilio pastorale. Ermeneutica delle dottrine conciliari, Cantagalli, Siena 2014; E. Finotti, La dottrina del Concilio. Per una retta interpretazione del Vaticano II, Leonardo da Vinci, Roma 2017.
3. Si veda E. M. Radaelli, La Chiesa ribaltata. Indagine estetica sulla teologia, sulla forma e sul linguaggio del magistero di papa Francesco, Gondolin, Verona 2016.
4. Si vedano, tra i tanti scritti encomiastici sull’argomento: A. Grillo, Le cose nuove di «Amoris lætitia». Come papa Francesco traduce il sentire cattolico, Cittadella Editrice, Assisi 2016; A. Carriero, Il vocabolario di Papa Francesco. Parole profetiche per il nostro tempo, Prefazione del card. P. Parolin, Elledici, Torino 2016; G. E. Rusconi, La teologia narrativa di papa Francesco, Laterza, Roma-Bari 2017; M. Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale. Dialettica e mistica, Jaca Book, Milano 2017.
5. Giovanni Paolo II, Discorso, 12 novembre 1988, ai partecipanti al II Congresso Internazionale di Teologia morale, n. 4.
6. Si veda A. Livi, Come la teologia neomodernista è passata dal rifiuto del magistero ancora dogmatico all’esaltazione di un magistero volutamente ambiguo, in A. Livi (a cura di), Teologia e Magistero, oggi, Leonardo da Vinci, Roma 2017, pp. 59-86.
7. P. Hünermann, Sprache des Glaubens – Sprache des Lehramts – Sprache der Theologie, Herder, Freiburg 2016, p. 123.
8 Memorandum Wider die Entmündigung – für eine offene Katholizität, pubblicato il 6 gennaio 1989.
9. Ibidem.
10. J. Ratzinger, La pluralità delle confessioni non relativizza l’esigenza del vero, in L’Osservatore Romano, 8 ottobre 2000, pp. 1-3 (il testo italiano riprende un’intervista in tedesco pubblicata nel Frankfurter Allgemeine Zeitung il 22 settembre).
11. P. Hünermann, The Sacrament of Marriage: A Dogmatic Theologian Reads “Amoris lætitia”, in T. Knieps (a cura di), A point of no return? Amoris lætitia on Marriage, Divorce and Remarriage, Port Le Roi, LIT Verlag, Münster 2017, p. 90 [87-103].
12. Ibidem.
13. Si tratta di una collana di 11 saggi pubblicata dalla Libreria Editrice Vaticana, i cui autori sono i tedeschi Peter Hünermann e Jürgen Werbick; gli italiani Piero Coda, Aristide Fumagalli, Lucio Casula, Roberto Repole e Marinella Perroni; lo spagnolo Santiago Madrigal Terrazas; gli argentini Carlos Maria Galli e Juan Carlos Scannone; lo sloveno Ivan Rupnik.
14. Benedetto XVI, Lettera al Prefetto della Segreteria per la Comunicazione, Dario Edoardo Viganò, 7 marzo 2018 (testo integrale pubblicato il 18 marzo dal quotidiano Il foglio).
15. Si veda in proposito E. Innocenti, La psicoanalisi di Freud e di Jung. Una critica epistemologica, Leonardo da Vinci, Roma 2018; A. Livi (a cura di), Psicoanalisi e teologia, Leonardo da Vinci, Roma 2018.
16. Giovanni Paolo II, Discorso, 5 giugno 1987, ai partecipanti a un incontro di studio sulla procreazione responsabile, n. 2.
17. Idem, Discorso, 12 novembre 1988, ai partecipanti al II Congresso Internazionale di Teologia morale, n. 3.
18. Di questo si lamentava filialmente con la Santa Sede il vescovo di Albenga-Imperia, mons. Mario Oliveri, in una lunga serie di lettere indirizzate a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI, ora pubblicate in un volume che comprende anche alcune delle risposte del papa o di esponenti della Curia: cf M. Oliveri, Un vescovo scrive alla Santa Sede sui pericoli pastorali del relativismo dogmatico. Lettere scelte e annotate da Antonio. Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2017 (Divinitas verbi).
19. Cf J. Ratzinger- Benedikt XVI, Jesus von Nazareth, 3 voll., Herder, Freiburg 2007-2012.
Fumagal
20. Il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana parla del teologo tedesco come dell’ispiratore dell’Esortazione Apostolica di papa Francesco: «Tra i più profondi conoscitori dell’Esortazione post-sinodale, Walter Kasper, presidente emerito del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, non è soltanto uno dei teologi più ascoltati dal Papa, ma anche l’esperto a cui lo stesso Francesco ha affidato la relazione introduttiva al Concistoro del 21 febbraio 2014 sul Vangelo della famiglia. Un intervento coraggioso che ha aperto la strada al dibattito sinodale ed è considerato una sorta di “bozza” ideale di Amoris lætitia»: L. Moia Kasper. I tre criteri per leggere “Amoris lætitia”, in Avvenire, 17 febbraio 2018. Sui problemi suscitati da tale protagonismo teologico si veda: A. Livi (a cura di), Dogma e pastorale. L’ermeneutica del Magistero dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, Leonardo da Vinci, Roma 2016.
21. W. Kasper, Die Botschaft von Amoris lætitia. Ein freundlicher Disput, Herder, Freiburg 2018.
22. Cf A. Fumagalli, Camminare nell’amore. La teologia morale di papa Francesco, Liberia Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2018.
23. Cf C. Testa, L’ordine giuridico e l’ordine morale. Riflessioni sul diritto naturale e sulla deontologia dei giuristi a proposito della “Correctio filialis” a Papa Bergoglio, Introduzione epistemologica di A. Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2017.
24. T. Weinandy, The Four Marks of the Church: The Contemporary Crisis in Ecclesiology, conferenza tenuta il 4 febbraio 2018 a Sydney, presso la sede australiana dell’University of Notre Dame.
25. Benedetto XVI [J. Ratzinger], Ultime conversazioni, a cura di P. Seewald, trad. it. di C. Galli, Garzanti, Milano 2016, pp. 12-13.
26. L. Melina, Prefazione, in P. S. Galuska, Karol Wojtyła e “Humanæ Vitæ”. Il contributo dell’Arcivescovo di Cracovia e del gruppo di teologi polacchi all’enciclica di Paolo VI, trad. it., Cantagalli, Siena 2018, p. 12.
27. Si vedano i recenti studi di J. Mercant Simó, Los fundamentos filosóficos de la teología trascendental de Karl Rahner, Leonardo da Vinci, Roma 2017; Idem, La metafísica del conocimiento de Karl Rahner. Análisis de “Espíritu en el mundo”, Documenta universitaria, Girona 2018.
28. S. Fontana, Addio insegnamento, il Magistero ora pone dubbi, in La Nuova Bussola Quotidiana, 4 aprile 2018.
29. Papa Francesco, Esortazione Apostolica Gaudete et exsultate, 19 marzo 2018, n. 35.
30. Ivi, nn. 36-44 (corsivo nostro).
31. Ivi, nn. 47-57 (corsivo nostro).
32. Si veda A. Livi, L’opinabile, il dogmatico, in Studi cattolici 24 (1980) 763-765; 779-784.
33. Si veda D. Quinto, Disorientamento pastorale. La fallacia umanistica al posto della verità rivelata?, Introduzione teologica di A. Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2016. Analoghi rilevamenti sono stati fatti, molto più autorevolmente, dal card. Raymond Burke, uno dei quattro firmatari dei Dubia, il quale recentemente ha detto: «La confusione e la divisione nella Chiesa, sulle questioni fondamentali e più importanti – il matrimonio e la famiglia, i Sacramenti e la giusta disposizione per accedervi, gli atti intrinsecamente cattivi, la vita eterna e i Novissimi – diventano sempre più diffuse. E il Papa non soltanto rifiuta Chiesa, una responsabilità che è inerente al suo ministero quale Successore di san Pietro, ma aumenta anche la confusione. […] La situazione è ulteriordi chiarire le cose con l’annuncio della costante dottrina e sana disciplina della mente aggravata dal silenzio di tanti vescovi e cardinali che condividono con il Romano Pontefice la sollecitudine per la Chiesa universale. Alcuni stanno semplicemente zitti. Altri fanno finta che non ci sia nulla di grave. Altri ancora diffondono fantasie di una nuova Chiesa, di una Chiesa che prende una direzione totalmente diversa dal passato, fantasticando ad esempio di un “nuovo paradigma” per la Chiesa o di una conversione radicale della prassi pastorale della Chiesa, rendendola completamente nuova. Poi ci sono quelli che sono entusiasti promotori della cosiddetta rivoluzione nella Chiesa Cattolica. Per i fedeli che capiscono la gravità della situazione, la mancanza di direzione dottrinale e disciplinare da parte dei loro pastori li lascia smarriti» (R. Burke, Correggere il Papa per obbedire a Cristo, intervista, in La Nuova Bussola Quotidiana, 5 aprile 2018).
34. Si veda in proposito A. Livi, Solo la vera teologia (discorso razionale che guida alla salvezza) può contrastare l’ideologia, discorso irrazionale che confonde le coscienze, in G. Possedoni (a cura di), Inscindibili. Giustizia, verità, misericordia: se mancano le prime due, l’ultima non è tale, Leonardo da Vinci, Roma 2016, pp. 21-50.
35 Riprendo la formula felicemente suggerita da un autore di Teologia fondamentale del primo Novecento: F. Marín-Sola, La evolución homogénea del dogma católico, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 19632. In questa opera, il dotto teologo domenicano critica tra l’altro l’espressione “fides ecclesiastica”, insistendo giustamente sul fatto che ogni interpretazione autentica del dogma proposta dal Magistero in virtù del carisma di infallibilità che gli è proprio non fa che mettere in luce le virtualità di significato e di senso realmente contenute nel dato rivelato, senza che la Chiesa lo debba mescolare a ipotesi teologiche, che come tali sono estranee alla fides divina.