In Memoria di Mons. Antonio Livi
di Stefano Fontana – Anno XV. 1-2020 – sez. Editoriale – p. 21-24
Come i lettori sapranno, mons. Antonio Livi è deceduto il giorno 2 aprile 2020 dopo una lunga malattia e lenta agonia. A mons. Livi, alla sua grande umanità unita a una profonda conoscenza filosofica e teologica, la nostra rivista Fides Catholica deve molto. In un momento di grande difficoltà che il nostro periodico stava attraversando, con molta carità e amore per la verità, si offerse di prendere le redini in mano divenendone il direttore editoriale. Nel 2015 firmò il suo primo editoriale rimanendo alla guida della rivista fino al 2019, offrendo contributi altamente interessanti, una sorta di sintesi della sua specializzazione e assidua speculazione: la filosofia aletica del senso comune quale liminare obbligatorio per saggiare la ragione e in ultima analisi una vera teologia e distinguerla da una mera filosofia religiosa. I suoi contributi per Fides Catholica sono stati decisivi anche nell’offrire le ragioni dello smarrimento magisteriale, succube di una teologia che ha rinunciato alla verità. Per poter ricordare questo grande studioso nonché zelante sacerdote – la sua ricerca e la sua filosofia erano sempre intese come ausilio pastorale del ministero sacerdotale – mentre invitiamo i lettori a riprendere in mano i suoi contributi, pubblichiamo un articolo che Stefano Fontana ha scritto per la Nuova Bussola Quotidiana il giorno dopo il decesso di mons. Livi, ringraziandolo per la gentile concessione.
Una cattiva filosofia produce una cattiva teologia e questa porta la Chiesa fuori strada. Non aveva dubbi, monsignor Antonio Livi, che ci ha lasciati ieri a 82 anni a Roma per aspettarci nella Gloria di Dio quando questo passaggio toccherà anche a noi, che la Chiesa stia andando fuori strada. Ed aveva impegnato tutta la sua vita di filosofo e di teologo per spiegare e difendere la recta ratio, la verità naturale, la filosofia spontanea dello spirito umano, senza della quale non è possibile la recta fides, la fede non solo come atto soggettivo (fides qua) ma anche come conoscenza delle verità rivelate salvifiche (fides quae).
La dislocazione attuale dall’oggetto al soggetto, dai contenuti alla prassi, dalla dottrina alla pastorale tipica delle età in decadenza, come scriveva Josef Pieper (“tutte le epoche in procinto di dissolversi sono soggettive, mentre tutte le epoche che guardano in avanti hanno una direzione oggettiva”), connota anche questa nostra età della decadenza e riguarda anche la Chiesa. La teologia cattolica, insegnava Antonio Livi, sta perdendo il riferimento ad un sistema naturale di pensiero senza il quale essa si riduce a generica letteratura religiosa, a vaga esortazione parenetica, ad assimilazione mimetica e compiaciuta del linguaggio del mondo, ma non serve più il dogma.
Senza la struttura di verità del proprio pensiero – egli usava l’espressione “epistemologia aletica” – la fede cristiana cessa di essere un autentico sapere, non si comunica a tutti gli uomini, non presenta i dogmi sempre nello stesso senso, non li difende dalle eresie.
Sulla scia del suo maestro Étienne Gilson, Antonio Livi è stato un grande tomista vissuto in un’epoca in cui la teologia cattolica ha messo il realismo metafisico completamente da parte. Per questo la sua vita è stata una “lotta” teoretica e pratica – “sapesse quante ne ho passate!”, mi aveva detto -, una lotta fino all’ultimo momento, una lotta che egli lascia in eredità: “Ho pochi momenti lucidi nell’agonia, ma so che altri continueranno dopo di me”.
Proprio come Gilson, Livi ha denunciato tutti i tentativi moderni, necessariamente confluenti nel modernismo, di negare il realismo filosofico, sapendo che se si concede al pensiero moderno anche una sola briciola di vantaggio all’inizio, la partita prima o dopo sarà perduta. La stessa battaglia che Gilson aveva intrapreso fieramente contro la scuola di Lovanio negli anni Trenta del secolo scorso, Livi l’ha affrontata contro i neomodernisti del nostro tempo, denunciando il razionalismo di origine protestante dilagante ormai nella teologia cattolica e che animava la protestantizzazione del cattolicesimo ormai sotto gli occhi di tutti.
La sua “filosofia del senso comune” eliminava ogni concessione al dubbio cartesiano e al criticismo kantiano, impediva sul nascere qualsiasi accordo tra il realismo metafisico e i principi della filosofia moderna, liquidava come inconsistente e dannosa la teologia ufficialmente professata in moltissimi centri accademici cattolici comprese le università pontificie, fronteggiava apertamente i più acclamati maestri del pensiero cattolico attualmente in voga, tanto inconsistenti quanto vezzeggiati dal nuovo establishment ecclesiastico.
Come aveva fatto Réginald Garrigou-Lagrange negli anni quaranta del secolo scorso, Antonio Livi si era chiesto dove stesse andando la nouvelle théologie e la sua diagnosi confermava quella del grande domenicano: essa conduce alla tesi che una teologia non attuale è falsa e che la teologia vera per essere vera deve essere attuale. È così che ha pensato Rahner e che pensa Kasper, per i quali l’essere è tempo e il tempo è essere, la teologia nasce dall’esistenza che è sempre mutevole e così anche essa cambia.
Una teologia immutabilmente vera oggi è ritenuta cosa impossibile anche ai vertici della Chiesa, ma non da Antonio Livi. Nel suo libro forse più famoso, “Vera e falsa teologia”, egli presentò un elenco di teologi, poi più volte aggiornato, che stravolgevano la teologia cattolica e che ciò nonostante erano insigniti al merito da parte dell’autorità ecclesiastica. Nei suoi ultimi editoriali della rivista “Fides Catholica”, di cui aveva preso la direzione dopo le note vicende accadute ai Francescani dell’Immacolata, aveva denunciato la logica hegeliana penetrata nello stesso magistero, come conseguenza matura della nuova teologia modernista: un certo insegnamento dottrinale o morale è vero, ma poi i tempi cambiano e quindi bisogna riconsiderarlo.
Antonio Livi va paragonato, come già osservato, a Garrigou-Lagrange, a Étienne Gilson, a Cornelio Fabro, ai grandi filosofi e teologi della Scuola Romana la cui ricchezza è stata rifiutata e dimenticata e nessuno sa dire perché. Rifiutata perché non più attuale, ma rifiutare una verità perché non più attuale significa rifiutarla senza un perché. Certamente è triste che i Grandi siano rifiutati senza un perché. Del resto, però, ciò evidenzia la loro grandezza rispetto alla quale nessun perché è sufficiente per rifiutarli.