Realismo e pastorale. Fabro e la riscoperta del realismo tommasiano
di Umberto Galeazzi, – Anno XVIII. 1-2023 – sez. Philosophica – p. 135-156
La cura pastorale deve annunciare la verità su Dio e sull’uomo. Ma, a causa del soggettivismo portato avanti dal pensiero moderno, a partire da Cartesio per arrivare a Sartre, la verità è ormai divenuta una realtà relativa all’uomo e al suo modo di intendere il mondo, una realtà dunque che dipende dal soggetto conoscente e che inevitabilmente genera una chiusura autarchica nell’immanenza del soggetto stesso. L’Autore, rifacendosi a Cornelio Fabro, che a sua volta riprende il realismo tommasiano – che si oppone appunto al soggettivismo –, dimostra che il soggetto umano conoscente non è una mera cosa pensante, ricavata per astrazione dall’uomo concreto, ma un intelletto congiunto al corpo, che per prima cosa conosce l’ente e poi si innalza alla cognizione anche delle realtà immateriali. La natura degli esseri creati, pertanto, non è in balia della labilità delle opinioni, ma ha una determinata consistenza ontologica, che nell’uomo consiste nella realizzazione della sua natura – fatta a immagine e somiglianza di Dio – e cioè nella piena conformità al suo Creatore.
1. IL REALISMO COME CONDIZIONE IMPRESCINDIBILE DELL’ANNUNCIO DEL KERIGMA
La cura pastorale ha come momento essenziale e decisivo – che dirige e finalizza a sé ogni altra attività, pur necessaria – l’annuncio del kerigma, messaggio che salva proprio in quanto è vero, proprio in quanto ci dice la verità su Dio e sull’uomo. Infatti, con la fede che nasce dall’ascolto dell’annuncio, «noi non crediamo in alcune formule, ma nelle realtà che esse esprimono»1. Dopo queste parole, che non consentono equivoci, il Catechismo della Chiesa Cattolica cita, con pieno consenso, il seguente passo di san Tommaso d’Aquino, ugualmente caratterizzato da una chiara posizione realistica: «L’atto di fede del credente non si ferma all’enunciato, ma raggiunge la realtà enunciata»2. Il kerigma non è una mera opinione soggettiva, che si lascia accanto a sé, come ugualmente valide e inconfutate, anche le opinioni opposte che lo negano. Ma è una luce che ci fa conoscere la realtà della condizione umana, fatta di miseria e di grandezza, costituita, però, primariamente dalla incancellabile relazione creaturale e salvifica con il Dio vivente.
Questa luce lotta e vince contro le tenebre menzognere, che continuamente ripropongono diversi e svariati idoli per metterli – come il biblico vitello d’oro – al posto di Dio. Ma l’adorazione degli idoli ha un costo umano molto elevato, è esiziale per l’uomo, come purtroppo ci ha dimostrato ad abundantiam anche la storia del secolo scorso e come dobbiamo constatare, liberandoci dai paraocchi, anche oggi. Solo la luce della verità è liberante per l’uomo. Dice Gesù: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). La parola di Gesù dice la verità (cf Gv 8,45), manifesta la realtà per quella che è, il suo messaggio è consapevolmente realistico, come emerge chiaramente anche dalla contrapposizione al diavolo, padre della menzogna, che «è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44). Inoltre bisogna sottolineare – con buona pace di sentimentalismi irrazionalistici e fideistici, frutto dell’arbitrio soggettivo – che la fedeltà alla parola di verità, il perseverare nella verità, è elemento imprescindibile della sequela di Cristo e dell’autentica liberazione.
In piena consonanza con questa prospettiva veritativa e realistica sono i documenti del Concilio Vaticano II, di cui basti citare la Costituzione Gaudium et spes:
«In realtà solo nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo […]. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su esposte in Lui trovino la loro sorgente e tocchino il loro vertice»3.
La peculiare autocomprensione della Religione cristiana implica la certezza «di essere, nel suo nocciolo, il rivelarsi della verità stessa, e quindi di essere redenzione, poiché la vera sciagura dell’uomo è proprio l’essere all’oscuro della verità»4. Ora, se il kerigma viene comunicato e accolto sulla base del criterio ermeneutico relativistico e scettico – oggi ancora di moda presso alcuni addetti ai lavori filosofici e teologici –, che tradisce il suo compito in quanto riduce tutto a interpretazione (ma se tutto fosse interpretazione non esisterebbe la realtà né i fatti e quindi non ci sarebbe niente da interpretare)5, allora il soggetto diventa prigioniero di un narcisistico dialogo con se stesso e incapace di ricevere e di intendere un messaggio che gli viene dall’altro, la salvezza che gli viene dal Signore. Ma considerare la verità della fede come mera opinione soggettiva significa deformare il contenuto del kerigma, riducendolo antropomorficamente a misura d’uomo. Se questi si trova di fronte alla mera opinione, senza possibilità di riconoscere la verità, allora è la semplice scelta di aderire all’opinione che ne fonda il valore, ma, in tal modo, lo subordina al potere arbitrario del soggetto, che così si fa centro di tutto, pretende di porsi come l’assoluto. Si tratta di un errore non solo teorico, ma che coinvolge l’intera esistenza, perché implica l’adorazione dell’idolo invece del Dio vivente. Perciò è importante considerare adeguatamente la riscoperta del valore del realismo di san Tommaso d’Aquino che Cornelio Fabro ci propone in dialogo critico con il contesto filosofico contemporaneo.
Fabro mira a superare la scissione cartesiana “tra percezione e pensiero”6, avvalendosi soprattutto della ricerca aristotelica e tommasiana. Subito dopo Fenomenologia della percezione (1941) Fabro pubblica l’opera Percezione e pensiero (1941), che vuole essere una continuazione della prima, con un intento non solo fenomenologico, ma «strettamente speculativo»7, mirando a dare «un’interpretazione d’insieme degli oggetti, degli atti e delle funzioni della conoscenza»8, per indagarne il valore veritativo, la capacità di manifestare e di comprendere il reale.
Attraverso una discussione con moltissimi autori, sia in ambito filosofico, sia in ambito fenomenologico e psicologico, articola e giustifica efficacemente la tesi, secondo cui
«non v’è percezione senza qualche pensiero (implicito), e non v’è barlume di pensiero senza un qualche riferimento a contenuti di percezione (conversio ad phantasmata). Quando dico pertanto “io vedo la casa, l’albero, il cielo…”, non si tratta né di un’espressione metaforica, e neppure di un’estensione illecita del linguaggio: l’espressione, oltre che essere l’affermazione di un fatto evidente, porta in sé e rivela la condizione imprescindibile per l’esercizio della conoscenza umana come tale»9.
2. ARISTOTELE E L’ORIGINALITA DELLA CONOSCENZA UMANA
Per Fabro, Aristotele ha il grande merito di aver rivendicato, in opposizione sia a Democrito che a Platone, l’originalità assoluta della conoscenza umana, a partire dalla sensazione. Infatti per lo Stagirita la sensibilità è «capacità di ricevere la forma senza la materia»10, ma attraverso la conoscenza della materia, in quanto «il senso subisce l’azione e si assimila a ciò che ha colore, suono […], non secondo il contenuto fisico degli oggetti che portano quelle qualità, ma secondo il solo aspetto formale»11. Si tratta di un alterarsi, da parte del soggetto, di natura speciale e irriducibile a quello fisico, che si può indicare come «l’esempio più tipico del passaggio dalla potenza all’atto»12, onde si può parlare propriamente di attuazione conoscitiva, di alterazione perfettiva, perché il conoscente attua in tal modo le proprie potenzialità più peculiari e il proprio dinamismo perfettivo.
È questa la meraviglia della conoscenza umana – che è sorprendente e offre occasione di riflessione e ripensamento a un certo acritico materialismo – in quanto, dall’incontro tra due realtà apparentemente solo materiali, come l’oggetto fisico e il soggetto senziente, scaturisce qualcosa di immateriale, cioè la forma dell’oggetto, attraverso cui al soggetto è presente l’oggetto, certamente non nella sua fisicità o materialità.
«L’organo, per la sua materialità – scrive Fabro – rende possibile il contatto con la realtà esteriore e ne riceve gli influssi. Questa ricezione dello stimolo nell’organo, per misteriosa che sia, implica sempre […] una alterazione […]. La ricezione ed alterazione, che già nello stesso organo non è più completamente fisica – altrimenti l’organo si corromperebbe, crescerebbe, diminuirebbe – viene avvertita e come trascritta dalla facoltà ed è detta la forma dell’oggetto, presente nell’anima conoscente e che costituisce l’originalità della vita conoscitiva»13.
Di qui la grandezza mirabile dell’anima umana: in virtù di questa trascrizione immateriale della molteplicità delle cose nella potenza conoscitiva, Aristotele può dire che «l’anima è, in certo modo, tutti gli enti»14, è l’apertura alla totalità del reale, diviene progressivamente tutte le cose, in un certo modo, perché le accoglie in sé e le lascia manifestare, cioè le conosce. Tutto ciò costituisce un arricchimento, un perfezionamento dell’anima, che «è chiamata, nelle condizioni opportune, a trasformare gradualmente la propria infinità attitudinale e potenziale nella possessione reale di atti e forme»15. Come è possibile questo? Come avviene «che i corpi materiali, oltre l’alterazione fisica evidente che producono sull’organo di senso, riescano a causare un’immutazione occulta sulla facoltà e ad amplificare l’anima stessa?»16. Ciò è possibile perché, come dice Aristotele, «non la pietra è nell’anima, ma la sua forma, o specie»17.