Il minimalismo: l’eresia poco conosciuta
di Padre Serafino M. Lanzetta – Anno XVII. 1-2022 – sez. Editoriale – p. 5-14
C’è un principio-guida che da anni ormai ha preso il sopravvento e detta legge in nome della semplicità e della ricerca dell’essenziale. Si tratta del minimalismo. Esso è ricerca della sobrietà e una risposta al consumismo dilagante. Si prova ad andare a ciò che veramente conta e questo è senza dubbio da lodare. Basti qui accennare al grande esempio di semplicità di san Francesco d’Assisi, il quale per amore di Gesù Crocifisso e per seguire il Vangelo alla lettera volle liberarsi di tutti i suoi beni restituendoli simbolicamente al padre terreno. Libero da ogni cosa, poté esclamare: “Dio mio e mio tutto”. In fondo, è lo stesso Vangelo che ci esorta a scegliere prima di tutto e al di sopra di tutto il Regno di Dio e la sua giustizia. Tutte le altre cose ci saranno date in aggiunta (cf Mt 6,33), restituite alla loro vera essenza e importanza. La ricerca dell’essenzialità è importante e anche preziosa per lo spirito. La logica del minimalismo come essenzialità è presente in vari ambiti, quali l’arte, l’architettura e l’arredamento. È anche uno stile di vita.
Quando però si prova ad andare all’essenza per ragioni meramente utili allora si verificano molti problemi. Il principio a cui facciamo riferimento in questa sede è teologico. La sua problematicità nasce da un approccio filosofico di fondo di tipo matematico-utilitaristico. Potremmo subito riassumerlo così: provare ad andare all’essenziale liberandosi del superfluo e scoprirsi invece privi di ciò che veramente conta. Perdere pian piano dei pezzi per strada. Ciò per il fatto che si prova a ricercare l’essenziale in modo utilitaristico e non metafisico. Gli esempi a riguardo si moltiplicano e sceglieremo, perciò, solo due ambiti che mettono in luce la logica del minimalismo all’opera: quello liturgico e quello mariologico. Per ora e a modo d’introduzione basta accennare all’affanno con cui si è rincorso l’“aggiornamento” conciliare. Tra le tante cose che questa parola significa (ha significato e significherà per l’avvenire) c’è soprattutto il desiderio e la volontà di far ritornare la Chiesa alla sua freschezza originaria, alle fonti, al Vangelo. San Francesco fece la medesima cosa ma in un modo nettamente opposto. Il Santo d’Assisi voltò le spalle al mondo rinunciando a tutto per possedere Cristo e la Chiesa secondo il Vangelo trasmesso ininterrottamente fino al suo tempo; noi, invece, dopo sessant’anni d’esperienza conciliare, abbiamo provato a fare sconti sulla fede e sulla morale pur di abbracciare il mondo e di sentirci più al passo con i tempi, più comodamente inseriti nella storia. Il giullare d’Assisi scelse il Vangelo alla lettera, sine glossa, senza tralasciare nulla: volle il Vangelo tutto intero, così come era stato consegnato alla Chiesa e poi a lui dalla Chiesa. Più recentemente, invece, si è provato a ritornare al Vangelo liberandolo in qualche modo dalla sua trasmissione costante, tentando così di andare indietro, all’origine, ma omettendo o obliando il prosieguo dall’origine a noi. Si è provato ad andare alla fonte senza risalirvi attraverso le acque che da essa sgorgavano, ma per altre vie. Si è così facilmente smarrita anche la fonte, liberandosi di elementi ritenuti secondari, ma che hanno provocato la perdita di pezzi importanti. La sobrietà di san Francesco d’Assisi era metafisica: rinunciare a tutto per avere il Tutto; la nostra in gran parte utilitaristica: rinunciare a molto per un risultato più immediato, per la felicità di molti, concepita però quasi in modo matematico, con operazioni decise a tavolino.
Questo discorso va inquadrato nell’ambito della ricerca della felicità raggiunta in modo matematico, cioè necessario e infallibile. Fu il Settecento ad essere stato designato come il “secolo della felicità” che avrebbe illuminato quest’ambizione. È allora che il mondo conosce una rinnovata fiducia nella scienza e nella tecnica, in particolare nel dato matematico. La felicità poteva essere quantificata e perciò pianificata, in modo da avere la massima soddisfazione con il minimo dispendio di energie, con il minino dolore. Si cominciò a porre in modo proporzionale e con formule matematiche la felicità da una parte e il dolore dall’altra. Pierre Louis Moreau de Maupertuis (1689-1759) nel suo Saggio di filosofia morale (1749) dice così: «La felicità risulta dalla somma dei beni che restano dopo aver sottratto tutti i mali»1. Se si moltiplica l’intensità per la durata si può calcolare e quindi quantificare il peso dei beni e dei mali. Si cominciò quindi a fare la stima dei momenti felici e di quelli infelici. Non c’è dubbio che il piacere morale abbia la meglio su quello fisico. Infatti, mentre il piacere fisico diminuisce con la durata, quello morale aumenta con il tempo. La sfida comunque consistette nel tentativo di individuare una formula matematica della felicità sociale, riducendo al minimo l’impatto del dolore sulla vita e aumentando il piacere del bene. L’etica doveva essere basata sull’utile per essere veramente illuminata e illuminante. Come fare? Arriviamo al 1726, quando lo scozzese Francis Hutcheson (1694-1746) nella Ricerca sull’origine delle nostre idee di bellezza e di virtù, individua un assioma che sarà poi all’origine dell’utilitarismo. Scrive così: «L’azione migliore è quella che procura la maggiore felicità al maggior numero di persone; la peggiore è quella che, in modo simile, produce miseria»2.
Sarà poi il filosofo inglese Jeremy Bentham (1748-1832) a trarre tutte le conseguenze etiche da questo principio e a formulare la filosofia utilitaristica. L’unica cosa che interessa agli uomini, a suo giudizio, è la massima felicità per il maggior numero di persone: questa è la vera misura del bene e del male. Questa la tesi sostenuta nel suo Un frammento sul governo (1776). Dopo tredici anni preciserà meglio il suo pensiero e scriverà:
«La natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il dolore e il piacere. Spetta ad essi soltanto indicare quel che dovremmo fare, come anche determinare quel che faremo. […] Il principio di utilità riconosce tale soggezione, e la assume a fondamento di quel sistema il cui obiettivo è innalzare l’edificio della felicità per mezzo della ragione e della legge»3.
Il bene qui è identificato con il piacere a modo epicureo. La felicità per Bentham è una mera sottrazione della somma dei dolori dalla somma dei piaceri. Più piaceri, meno dolori. Questo però provocherà la presa di distanza di un suo discepolo, John Stuart Mill (1806-1873). Rispetto al maestro, Mill è più perfezionista e prova a sceverare l’utilitarismo di Bentham dal mero piacere edonistico. Ciò per non incorrere nell’accusa già in voga di “swine morality” (“morale del maiale”) con cui la filosofia benthamiana era stata etichettata. Per Mill ci sono dei piaceri superiori agli altri. Ad esempio, il piacere intellettuale è superiore a quello sensuale. Il suo maestro, invece, aveva allocato il bene nel piacere in un modo piuttosto indiscriminato. Seppur la critica di Mill provi a elevare la filosofia dell’utilitarismo a un rango più alto rispetto alla mera ricerca del piacere per se stesso, non riesce comunque a superare l’inghippo fondamentale di tale logica: la quantificazione del piacere (intellettuale) preferita alla sua qualità e ciò in vista della virtù. Il bene non è utile, è invece il fine dell’uomo; in quanto fine (télos), perfeziona, dona la felicità. La felicità, poi, non è quantificabile perché è spirituale. Proprio nella misura in cui provo a incasellarla in qualche parametro matematico col quantificarla, essa mi lascia triste e a mani vuote, perché sostituisco l’approccio metafisico-contemplativo con quello edonistico-utilitaristico. Il dolore più grande è trovare una soluzione al dolore rimanendo rinchiusi nella materia. Hutcheson, Bentham, Mill e poi anche Hume rimarranno chiusi nel loro empirismo illuministico, di tipo britannico.
L’approccio metafisico, invece, si concentra su ciò che è, così come è e in quanto è, non in quanto mi dà qualcosa. Per Aristotele il cuore della metafisica è la sostanza. A suo giudizio, l’essere è detto in molti modi. Ma il primo e il fondamentale modo di dirlo è la sostanza, ciò che è in sé, a livello logico, epistemico e temporale4. Sostanza equivale, tra l’altro, ad essenza5, traduzione di ciò che lo Stagirita indica con tò tí ên eînai, che letteralmente si può tradurre con “che cosa era essere”, in latino quidditas. A volte è indicata da Aristotele anche come tò tí esti, “ciò che è”. La sostanza indica la realtà delle cose, ciò che una cosa è, in quanto è in sé stessa e non in quanto disponibile. Un discorso ostico ai nostri giorni, in cui le cose sono ancora destinate a procurarci la maggiore felicità possibile.
Alla sostanza appartengono poi gli accidenti, i quali sebbene hanno l’essere in altro, nella sostanza e non in loro stessi, contribuiscono a definire ciò che una cosa è. L’essere lo si predica anzitutto e soprattutto della sostanza, poi, secondariamente, delle altre categorie, quali qualità, quantità, azione, ecc. In tutto lo Stagirita ne enumera nove. Gli accidenti pur essendo non necessari come la sostanza, tuttavia non sono irrilevanti. Sono importanti proprio per definire meglio la sostanza. Ad esempio, prendiamo un “uomo pallido”. Essere “pallido” non esprime ciò che è l’uomo, mentre “uomo” è ciò che un animale razionale è e non può non essere. Però se a quel particolare uomo, il solo che esiste in re, gli tolgo la qualità di essere pallido perché non essenziale, non avrò più l’identificazione di quell’uomo e così non saprò più cos’è non l’uomo ma quell’uomo, quella determinata sostanza. Togliere questo e poi quello, perché non essenziale, porta, con l’andare del tempo, a smarrire anche la sostanza, a perderla di vista.
È proprio ciò che è capitato in questi ultimi anni applicando il principio del minimalismo: andare all’essenza delle cose in modo utilitaristico, per la felicità di molti e con il minino dispendio di energie, dimenticando però che l’essenza semplicissima è solo una, quella che si identifica con l’esistenza: Dio, Colui che è. Se si vuole conservare Dio in questo mondo è necessario conservare tutte le sostanze con i loro accidenti, senza tagliuzzare qui e lì. Oggi abbiamo tante sostanze teologiche (ad es. verità di fede, riti liturgici, pratiche devozionali, ecc.) che sembrano non ci appartengano più. Un tempo erano cattoliche ora sanno di vecchio e di stantio. Le abbiamo perse di vista. Abbiamo buttato il bambino con l’acqua sporca. Vediamo però più in concreto quello che è successo in alcuni specifici ambiti dello scibile teologico, come già accennato, quello liturgico e quello mariologico.